Il giovane medico e la morte perinatale

by Claudia Ravaldi
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Questa è la lettera di una nostra studentessa, oggi brillantemente laureata in medicina. Le sue parole sono molto importanti e preziose: per chi cura, e per chi le cure le riceve.

M. ci racconta la sua esperienza come giovane studentessa, ci racconta le sue riflessioni sulla care nella morte perinatale, e le difficoltà che si incontrano quando manca una formazione e un sostegno emotivo agli operatori.

“Il mio percorso inizia come studente di medicina al terzo anno che inciampa per caso in un reparto di anatomia patologica “speciale”, per poi rimanerci fino alla tesi.

Oggi sono un giovane medico che ci tiene a continuare a vedere autopsie, andare ai congressi/leggere letteratura sulle morti in utero e soprattutto leggere le testimonianze  o anche incontrare le mamme. Proverò a spiegare perché, e a rispondere a una domanda che mi viene fatta spesso: “Chi me lo fa fare?”

Normalmente, secondo il piano di studi, non è nemmeno previsto che lo studente di medicina veda una autopsia: sta all’iniziativa/curiosità del singolo. Io non avevo tale curiosità, ma mi appassionavano le lezioni di anatomia patologica, così ho chiesto di dare un’occhiata al reparto e lì sono letteralmente finita per caso a vedere anche l’autopsia feto-placentare.

Le prime autopsie una tempesta di emozioni, un bel carico da gestire, con la paura di rimanerci schiacciata…

Ricordo che mi ero prefissata di guardare sempre il nome e di ricordarmelo (questo anche per gli adulti): mi sembrava un gesto dovuto, il minimo

Poi c’è stata Lia: una bambina bellissima affetta da mielomeningocele e piede torto. Era una delle mie prime, ho chiesto e avuto un momento per toccarla prima dell’autopsia: ho fatto scorrere le sue ditine fra le mie, ho accarezzato gli occhi, ero rapita, mi sembrava bellissima… perché era lì? Solo per quella cosina al fondo della schiena?! E i piedini, vabbè chi li guarda i piedi: è così bella! Ovviamente io al terzo anno non sapevo neanche lontanamente cosa fosse un mielomenigocele: me l’hanno spiegato e purtroppo Lia davvero non era lì per sbaglio.

Quando è iniziata l’autopsia mi sono sentita malissimo, ho dovuto costringermi a rimanere ugualmente tentando di assorbire solo il lato medico-scientifico di quello che avevo davanti. 

Allora, pensando potesse servire, ho provato a dire basta: non si leggono più i nomi dei bambini, si pensa solo alla patologia e… meno male che io sono lì “al sicuro” vicino alla cappa e lontano dai genitori, perché non saprei affrontarli.

Ho addirittura pensato e detto ad alta voce “ma i ginecologi dovrebbero spiegare alle mamme che non sono bebè in miniatura, che è meglio non vedere le malformazioni, le macerazioni, eccetera… e poi dopo l’autopsia, come fai a restituirlo così per il funerale!”. Che sciocca (per non dire altro): mi vergogno ad ammetterlo, ma sono partita anche da questo. Pensavo davvero questo.

Eppure nemmeno a me interessava la malformazione di Lia, era bellissima per me, figuriamoci per la sua mamma!!!

Ora capisco la bellezza e l’importanza del vedere, toccare, abbracciare, baciare e fotografare il bambino per il genitore… ma è una di quelle consapevolezze che per me sono venute col tempo. 

Insomma, “spersonalizzare” alla fine non ha funzionato. Potevo andare a casa e dirmi “oggi ho visto un canale atrio ventricolare unico” (una di quelle cose orribili che noi medici facciamo continuamente, no? Tipo “il letto 3 chiede un antidolorifico!”)… ma il momento di addormentarmi io non rivedo un CAV, vedo Giovanni o Giorgia.

Mi sono data tempo e pazienza, e così ho visto che invece cominciavo a cercare, ad avere bisogno della storia dei bambini e delle loro mamme. La stessa storia che mi faceva prima tanta paura.  

Non trovavo queste storie in anatomia patologica: le trovavo su CiaoLapo, i primi tempi affacciandomi al sito per brevi incursioni, sempre spaventata ma curiosa, poi, sempre senza forzarmi (tanto era una cosa solo mia: un semplice studente-osservatore come me non doveva rendere conto a nessun medico/professore o paziente) con più confidenza, meno paura, e tanta voglia di dare una voce, un nome, uno spazio.  

Poi ho incontrato la DottoressaL. Neanche sapevo che lei si occupava di mamme speciali, il percorso tesi è iniziato ai miei occhi con una ricercatrice che lavorava anche con il ProfB. Stop. Quante cose non imprigionabili sulla carta ha significato per me quella tesi!!! Ha iniziato a raccontarmi qualcosa lei del suo lavoro e per me è stato un enorme regalo, carico di fiducia! Finalmente parole vicine e tangibili, finalmente posso dar voce a tutte le mie domande, anche le più stupide: com’è il tuo lavoro? Cosa dice una mamma, cosa ti chiede? È bellissimo ma è difficile vero? Cosa fai se piange? Cosa fai se NON piange? Come ci sei arrivata? Riesci a tornare a casa e “staccare” la mente dal lavoro? Come fai quando soffri tu…? Eccetera. 

La mia crescita/sopravvivenza/coping è passata tantissimo dallo scambio e incontro con altri.

Sono stata e sono tuttora molto fortunata per le persone incontrate. 

Cosa dirti dunque sul punto di vista del laureando sulla morte in utero? 

Che siamo pochi, pochissimi. Già sono pochi gli anatomo-patologi e i ginecologi, figuriamoci gli studenti. In perfetto stile italiano, sta al singolo crearsi (o non crearsi) un armamentario di conoscenze pratiche e teoriche sulla patologia feto-placentare così come sulla gestione clinica e soprattutto umana di 1 gravidanza su 6.

Ovviamente le mie armi sono poche e spuntate, io sono solo all’inizio, non cammino da sola neanche lontanamente… è anche vero però che il mio tortuoso percorso mi ha arricchita tantissimo, ha proprio contribuito a plasmare il medico alle prime armi che sono. Le morti in utero mi hanno toccata, lasciando il segno, e io ho avuto bisogno non solo come studente/medico, ma proprio come persona di “portarmi a casa” il bambino e non il mielomeningocele, di parlarne, di ricordare, di confrontarmi e fare domande.

Anche se sono solo quella che assiste all’autopsia o spulcia l’archivio dei referti per uno studio, un pezzettino di me rimane coi casi incontrati ed un pezzettino della loro storia torna a casa con me: me ne devo occupare un po’ come il piccolo principe con la sua rosa.

E questo prendersi cura passa quasi sempre per l’incontro-confronto con l’altro. Una ricchezza infinita! 

Per questo prima ho scritto “siete voi che venite incontro a me”. 

Tuttavia è un punto di vista molto personale e non scindibile da come sono fatta io e da come re-agisco io… Assieme a me per esempio anche un altro ragazzo ha fatto la tesi con la DottoressaL e il ProfB, ha assistito anche lui a tante autopsie perinatali, ma il suo punto di vista è molto diverso dal mio: non perchè io sia più brava o più sensibile (assolutamente! Non c’entra!), ma perchè nell’anarchia cui tutti (medici, genitori, ostetriche, psicologi, studenti, ecc.) siamo lasciati l’evento morte in utero lascia al singolo l’onere di trovare il suo modo di “cope with“… ed ogni singolo risponde come può, facendo fronte alle sue esigenze ed esperienze.”

 

Sulla necessità di ripensare la formazione per i nostri giovani colleghi e per tutti gli operatori del materno infantile abbiamo già scritto, su riviste sia italiane che internazionali.

Gli effetti del mancato supporto agli operatori nelle criticità sono stati affrontati più volte: in particolare, il burnout e gli effetti posttraumatici legati all’assistenza sono stati oggetto di numerose pubblicazioni, nazionali e internazionali.

M nella sua lettera ci chiede di permettere ai giovani medici di riflettere sul dolore, sulla morte e sulla comunicazione con i familiari durante il percorso di studi.

Sul costo emotivo, ma anche economico, di imparare da soli a relazionarsi con i familiari di un paziente gravemente malato o deceduto parleremo estesamente in altri post.

Grazie alla dottoressaM, grazie alla DottoressaL e al ProfB. Per tutto quello che fanno ogni giorno. Medici, da cui abbiamo tutti tanto da imparare.

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