Alzheimer

by Claudia Ravaldi

 Da quando é entrata nella stanza, chi l’avrà avvisata?, non si é allontanata un instante dal mio letto, il mio tesoro in camice bianco, Lara, la mia nipotina, la mia bella dottoressa di fiducia. Quanto tempo sarà trascorso?

Il tempo. In quale irreale maniera scorre il tempo negli ospedali? A strattoni. Interminabile per  intere settimane, occhi fissi oltre i vetri della finestra, sbotta di colpo in galoppi imprevisti, istanti di voci decise, passi, porte che sbattono, e tu attendi solo che l’immobilità ritorni. Lara mi richiama al presente.

“Ora ci penso io, nonna Anna, non ti preoccupare più.” Ha preso un astuccio dalla tasca, due aghi color ottone, due fitte lievi, simmetriche. Li ha infissi decisa, poco sopra la piega dei polsi, all’interno. Mentre tergiversavo: “Mi pungi? Che cura  é mai questa, Ninin?”, “Lo sai nonna, é la mia agopuntura. Questo é il quinto punto del canale del tuo Cuore. In cinese si chiama Tongli. Tranquilla,   affidati   a   me,”  rassicurante ben oltre quanto intendesse. Il quinto punto del mio cuore, il primo, Gabriele.

E’ stato così che ho ricordato di questa mattina e ho capito. Gabriele sarebbe stato, é stato, il quinto fratellino, il primo maschietto. “Questo é un bel maschio,” ripeteva da mesi la nonna, “Pancione a punta non mente.” Io ero la più grandicella di quattro sorelle, le figlie del farmacista di Narni, Il parto fu rapido, otto calzette basse, silenziose e invisibili fuori della stanza di mamma e papà. Mia mamma sdraiata soffiava e piangeva sudore mentre Gabriele vedeva la luce morendo. Per anni cenammo con il suo seggiolone vuoto e piatti e posate apparecchiati anche per lui, e certe volte c’era davvero, un angioletto. Altre volte cenavamo in attesa. 

Stanotte ho infilato la porta ben prima dell’alba, in casa dormivano tutti profondo. Ho vagato per ore su marciapiedi lastricati di volti  e  di  voci,  di rumori e di  odori, i primi respiri del sole che stava sorgendo. Non chiedetemi dove. Poi clacson come sassate, tutto un vociare d’intorno, un pazzo frastuono cui rispondevo stizzita. Il fascio di luce arancione a tratti accecava. Gridavo? D’un tratto ho sbattuto negli occhi del fornaio dietro casa, impietrito con la saracinesca a mezz’aria mi ha salutato come se tutto fosse normale, con quel suo modo gioviale. “Salute a lei, Alessio, buona giornata.” Rispondergli mi ha tranquillizzata e ho zittito. Sull’ambulanza un dottore, forse un infermiere, mi ha chiesto come mi chiamavo. “Gabriele,” ho risposto decisa. “Ma signora cara, come può una donna avere nome maschile?” ha fatto lui, provocatorio e sornione. “Che giorno é oggi? Dove siamo, signora?” ha aggiunto. L’interrogatorio. Già vista anche questa, e al mio negarmi: “Del tutto disorientata nello spazio e nel tempo, e anche a memoria, siamo oltre fine riserva, demenza senile”. Così l’ho sentito biascicare a quell’altro alla guida, demenza senile, quasi si trattasse di un’altra razza, di una specie marziana. E’ qui, credo, che mi sono di nuovo arrabbiata. Cosa sentenzia sui miei ricordi e sulla mia vita questo paffuto ragazzo? Memoria. Noi vivi non abbiamo memoria. Noi vivi siamo memoria, memoria viva che perpetua se stessa, infaticabile, generazione dopo generazione. Così io mi chiamo Gabriele, ragazzo, che tu ci creda o meno. Io, ragazzo mio, non sono il mio nome, né il mio indirizzo di cui davvero, ora come ora, non so proprio nulla, né intendo sapere. Non so che giorno sia oggi, né il nome di questo rione, paese, città che sia, ma tu certo, ragazzetto, non capisci come questo non significhi nulla, altra é la vera memoria, e memoria vera ne ho tanta. Siete voi che non comprendete non io,  come spiegarvelo meglio che con questo silenzio? forse ora, con queste mie grida? E adesso vi prego, non investitemi con domande e questionari e test infallibili, cavolate, passatempi per voi signori cervelloni, professoroni vestiti Facis, luminari inamidati con due lauree a parete, vere o fasulle che siano. I vostri giochini io non li so certo risolvere e neppure ne ho voglia, ma memoria vera ne ho tanta.

Cosa credi ragazzo? Questo mio corpo, ora molle e grassoccio, conta quasi ottanta anni, sai?, questo mio corpo ricorda, tutto quanto ricorda. Un tempo ero una bruna cerbiatta, snella e sensuale. Camminavo a un palmo da terra in cerca di mirtilli e lamponi nei boschi, la mattina presto, con Eleonora. Fu lì che incontrammo Antonio, il mio povero Antonio, girava nei monti per funghi, altre volte l’avevamo notato. Quel giorno aveva due cesti così, zeppi di neri. L’anno seguente andammo sposi. Ma subito venne la guerra, andò paracadutista alla Folgore, a trattenerlo non mi provai neppure, era un tale testone…Quando poi ritornò, più di tre anni più tardi, la nostra vita ricominciò dall’oggi al domani, quasi che fosse mancato solo per il tempo del mietere il grano. Antonio e Anna, fu vero amore. Lo scorso anno festeggiammo le nozze d’oro, cinquanta anni d’amore, fianco a fianco, sempre, ogni mattina, ogni sera. Pensa, ragazzo, cinquanta anni insieme, filati filati. Poi il mio Antonio se ne é andato, come un cucciolo, fra le mie braccia. L’ho visto portasi una mano al collo e annaspare. “Non mi lasciare solo, amore,” mi sussurrava stringendomi le mani. “Ho freddo. Non mi lasciare, ora.” E’ spirato l’istante seguente. Non l’ho lasciato. Non ti lascerò mai, Antonio. Lo so bene, è morto, l’ho accompagnato alla sepoltura e non ho pianto neppure una lacrima. Perché piangere? Era ben vivo in me. Ho gettato un pugno di terra nella fossa con il mio giuramento: Ti ritroverò amore e ti starò sempre vicino. Per questo ogni volta me ne vado via, vengo in cerca di te, amore mio, e immancabilmente ti trovo. Come non potrei? Sei dovunque, Antonio, negli occhi di ogni persona, nei volti, nelle voci. Sei ogni vita, amore.

Tu non puoi capire, mio bel ragazzotto vestito di bianco, io serbo tutto ben stretto in me stessa, non ti immagini quanto. Memoria fin dentro le mie cellule, anno fianco ad anno, volto fianco a volto, ancora vitale, vero, reale, vivo nella mia carne, in queste mie rughe sul viso, io sono la storia. Io vivo per loro e vivo per questa ragazza, Lara, e vivo per i figli dei figli che, stai certo, verranno a questo mondo come sempre sono venuti. E voi smettetela, bambocci troppo istruiti che siete, smettetela di non fidarvi di voi stessi, di dubitare della vostra stessa mente. Che credete? Ci si ricorda di ciò che davvero vale per noi, ci si dimentica di ciò che non ha vero valore. Stai pure certo, ragazzo, il nome di tuo figlio non lo scorderai mai, ed il colore dei suoi occhi e la sua voce neppure, ma tutte quelle sciocchezze: Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro…Ne ho aiutate di giovani generazioni a mettere a memoria versi che a loro non significavano nulla, e a me neppure. Ai poeti, forse…E poi, che si pretende? Stette la spoglia immemore…La morte e la geografia non le impari sui libri. La morte te la insegna la vita, vivendola, chi altri?, e la geografia che importa davvero é territorio vasto meno di due metri, calda topografia di valli e montagne e oceani e forme di quei sessanta chili di vita i cui occhi ora ti stanno guardando, e tu ti accorgi che valgono il mondo. Memoria…

Memoria é la vitalità. Miliardi di cellule in attività sincrona e incessante, cromosomi, geni a milioni mantengono intatto il ricordo di millenni di vita e ne viene il presente. Che credevi, ragazzo?, ho studiato anch’io, Farmacia alla Sapienza, a Roma. Così so che scimmioni e pitecantropi vari dal passato più remoto del pianeta fiatano in noi ogni istante. Questa é l’unica vera memoria, quella che non sbaglia, quella organica, sangue non le parole crociate. Quell’altra memoria lasciatela pure sbagliare, tenetevela libera la vostra testa, vuota, pronta. Non sciupate la vostra mente, vi verrà comoda. Capa fresca, ripeteva mio cugino Fernando picchiettandosi la tempia con l’indice, faceva il bracciante ma quanto a  intuito…

“Dai nonna, ora dillo a questo signore come ti chiami. Fallo per me.” Lara mi distoglie di nuovo, cocciuta e implorante. Un faccione imponente mi osserva silenzioso a due palmi da me, e allora lo dico: “Mi chiamo Gabriele. Non insistete oltre, ragazzi.”  Ma poi, vedendo la mia nipotina dispiacersi, come resisterle? “Va bene. Non é vero professore, io non mi chiamo Gabriele. Io mi chiamo Gabriella. Io sono mia figlia. Sono la madre di questo tesoro. Si é laureata l’anno passato. E’ tanto brava, sa?, la mia Lara. Sempre stata.” “Però ora fatemi un grosso piacere, birichini che siete. Andatevene un poco più in là, a chiacchierare. Non mi state a spazientire oltre, voi e le vostre banalità, che io sono vecchia, stanca, spossata, e questo tremore non fa che salire. Sarà questo caldo, questa umidità. Ma dove siamo, qui? E tu ricorda, Ninin, quel tuo quinto punto del canale del Cuore funziona, ma non si chiama Tongli. Che nome sarebbe? Si chiama, Gabriele.”

Occhi socchiusi ascolto i loro passi allontanarsi sul marmo del corridoio, reparto di psichiatria, come al solito, immagino. Alzo gli occhi e li osservo, Ninin e il signor Gran Professore, una gazzella e un orango di spalle. Camici bianchi come divise, fonendoscopi come mostrine e alamari, ospedali psichiatrici come prigioni, ghetti per menti impedite, galere per cervelli coatti, preclusi. Siamo in trincea? Siamo in guerra? Siamo reclusi? E’ qui che le mie gambe si muovono, in direzione opposta a quei due.  

Esiste un altro Gabriele nella mia famiglia, mio nipote Gabriele, per tutti era Nazareno per via di certi suoi modi pacati e assorti e pure decisi, che stupivano in un cucciolotto così. Crebbe grande e robusto, e buono come il pane. Ancora ragazzo praticava il pugilato alla palestra di Narni. Fino a Firenze l’avevano chiamato a combattere ed era ritornato con tanto di fascia e medaglia, e fotografia sulla Gazzetta. Era finito incorniciato sul muro quel foglio, un rettangolo rosa di fianco al camino. Quanto ci teneva.

Sorrideva spavaldo, si capiva che aveva paura ma che tentava di tranquillizzarci, quando i tedeschi lo vennero a prendere. Lo accusavano di fiancheggiare la resistenza. Sbandieravano una lettera anonima. Sbraitavano incomprensibili insulti in tedesco. Lo portarono via a mezzogiorno, con la zuppiera del brodo che fumava in mezzo alla tavola e il pane già bello e tagliato. Raus. Nostro padre neppure si alzò dalla tavola. Stava immobile, duro, contratto. Anche dopo che il rumore del camion svanì, non parlò, non si mosse. Zuppa e pane nessuno li sfiorò. Papà ci riunì un mese dopo. Disse che lui non sapeva se Nazareno fosse o meno della resistenza. Testa calda suo nipote non lo era mai stato, ma ideali e senso della giustizia sì, certo, come ogni buon giovane, e forse ancora di più, Nazareno ne aveva. Aggiunse che lui al comando tedesco c’era stato più volte, e che le aveva tentate tutte. Aveva giurato che si prendeva personalmente lui ogni responsabilità, aveva pianto, si era inginocchiato, prendessero lui ma lasciassero andare il ragazzo. Aveva anche offerto dei soldi, un riscatto, ma non c’era stato nulla da fare anzi aveva avuto l’impressione di avere quasi peggiorato le cose. Ci informò che aveva fatto preparare le carte, ora era donna Fiorita, nostra madre, la padrona della cascina e dei campi. A me, che avevo la laurea, toccava il bancone della farmacia. Lui se ne andava sull’Appennino perché la faccenda di Gabriele non poteva, non doveva, finire così. Eravamo una gran bella famiglia, sana, unita, badassimo a mantenerci così. Ci abbracciò una ad una, nonna Cristina piangeva. Partirono la notte seguente, con lui andò anche Dino, il nostro mezzadro, e portò il lupo. Restavamo tutte noi, una famiglia di donne. Presto ci trasferimmo nella cascina, che era rimasta vuota, e affittammo la casa di Narni. Mesi dopo, all’ora di pranzo, sentimmo Bullo latrare, uscimmo di corsa sull’aia. Era solo, magro, tremava, nostra madre da allora non se ne separò fin che visse. Mesi dopo ci requisirono la farmacia e a me che gridavo il mio schifo, il comandante tedesco sussurrò che avevo dei bei lineamenti da ebrea, conveniva me ne stessi tranquilla, e mi carezzava i capelli. Maledetto. A volte lo incontro nei miei sogni e lo odio ancora di più. Ci restavano i campi, e bastarono per crescere tutti. La terra é così, non tradisce, quanto lavoro le dai te lo ritorna moltiplicato e ci aggiunge dell’altro di suo.

Di nostro padre non sapemmo più nulla, del mezzadro neppure, mio nipote Gabriele invece lo rividi parecchi anni dopo, ingrassato da non riconoscerlo. Ci raccontò che una volta incarcerato le SS lo avevano deportato nel meridione francese, a Carcassonne, non lo dimentichi un nome così. Un convoglio stipato di poveretti terrorizzati, colpevoli solo di vivere, troppi ne sono svaniti nel nulla di infernali vagoni così. “Nove giorni di viaggio piombato, corpo a corpo, neppure potevi sederti, digiuni, peggio degli animali. L’attesa, l’incertezza, l’angoscia ti sbriciolava, solo voci  sussurrate, tremende. Sbirciavi il percorso dalle feritoie, ti impegnavi ogni attimo per non impazzire.” Appena a terra, intravisto il campo di concentramento là in fondo, aveva provato a scappare. “Mi parve un cimitero di vivi. Ferocia e rassegnazione. Non scelsi, le mie gambe girarono su se stesse da sole, dietrofront, uscii dalla fila. “Cammina lento, guarda basso,” mi ripetevo. “Così varcai il cancello delle assi inchiodate col filo spinato. Pioveva. Il piantone non poté non vedermi, fumava di  fianco alla sbarra sepolto nella cerata d’ordinanza, in pratica lo sfiorai. Certo decise di aiutarmi, chissà quante ne aveva viste, rischiò di suo e andò bene ad entrambi. Una volta alla macchia nemmeno tentai di ritornare in Italia, rimasi clandestino in Provenza e meno di due anni dopo avevo messo su famiglia a Marsiglia,” concluse indicando orgoglioso moglie e figliola. Ascoltandolo confrontavo i suoi lineamenti con i miei ricordi, ma niente, ormai era straniero davvero, Gabriele il francese. 

Il tempo é rinfrescato stasera. Mi stringo nel mio nero scialletto a riquadri, non li riesco più a fare dei lavori precisi così,  all’uncinetto. Ne ho fatti di punti croce e di scialli…Non ho più la pazienza, gli occhi, le mani. Ormai so solo tremare, schiava di questa mia mente in frammenti che non fa che brandelli di passato e presente, lente scheggiata di un cannocchiale sghimbescio. Caro Antonio mio, almeno questa te la sei risparmiata. Cosa ne dicono i medici? Auschwitz? No, Alhzeimer. Un brivido mi riporta a me stessa. Ritmando i ricordi con un respiro affannato sono arrivata all’entrata dell’ospedale, all’uscita, é custodita da un grande cancello di ferro battuto, per fortuna qui non ci sono sentinelle e filo spinato. E’ socchiuso. Mi volto a osservare il vialetto bianco di ghiaia incorniciato dal filare di pioppi: “Libera”. Riprendo di lena il cammino, addio manicomio, già mi sento leggera, “Liberi tutti” canticchio. Abbandonata la strada mi addentro nelle campagne, l’erba é al ginocchio. Fra buche e intralci ho perso le ciabatte, levo anche i gambali, non servono a nulla, a piedi nudi avanzo nella rugiada, é già buio. Fatico a riprendere fiato. Il cuore mi ruzzola in corpo, attendo che plachi, stenta. In cielo, né luna né stelle, in terra, cicale a grancassa, qua e là, lucciole, benedette le mie tesorine di allora, non vi incontravo da tanto, temevo vi foste perdute anche voi, invece mi aspettavate quassù, in capo al mondo. Il vento fa aderire la notte alle mie guance scavate, “Liberi tutti” sussurra. Mi accovaccio. Dormire all’aperto, sotto questo cielo, sai la felicità. Da dove mi vengono allora questi maledetti singhiozzi? Abbracciami Antonio mio, fallo adesso, e stringimi, baciami stupido. 

Carlo Moiraghi.

Opera vincitrice del Concorso Letterario Le Parole dell’Amore, 2011

Pubblicata nell’antologia “Le canzoni sono Angeli”

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