La memory box: i ricordi per elaborare il lutto perinatale

by Claudia Ravaldi

Ciascuno ha una storia. La sua. Ciascuno è una storia. La sua. Per raccontare la nostra storia, per affrontare avversità, asprezze, sfide e gioie, è necessario disporre di una trama di memorie, riflessioni, parole e immagini. Più memorie, riflessioni, parole e immagini riusciamo a cucire insieme, più la nostra storia si fa ricca di parti anche molto diverse tra loro, eppure coerenti e piene di senso. Senza memorie, riflessioni, parole e immagini  questo “cucire insieme” gioie e dolori si fa molto complicato. È questo il caso degli eventi di vita avversi, delle catastrofi e dei lutti. È questo il caso di un lutto negletto, rinnegato per anni e anni dalla nostra società, reso indicibile e dunque inelaborabile.

La memory box è un prezioso strumento utile per restituire memorie, riflessioni, parole e immagini al lutto perinatale.

Il suo scopo è tenere una traccia gentile e verosimile di vite troppo  brevi per essere notate o tenute di conto: le vite dei bambini e delle bambine aspettati e troppo presto perduti.

La memory box è strumento prezioso per favorire il racconto familiare e sociale della morte perinatale, riconoscendolo come parte integrante e integrata delle vite di migliaia di persone.

Noi esseri umani nasciamo ascoltatori di storie, e, se siamo fortunati, veniamo allevati da raccontatori di storie: è attraverso le storie che si è stati in grado di tramandare, una generazione dopo l’altra,  gli insegnamenti, le pratiche, le esperienze e gli accadimenti della vita, quelli belli e quelli brutti. Ogni popolo, ogni gruppo ha la sua collezione di storie, ogni famiglia ha a sua volta la sua collezione familiare di storie, passate di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, tramandate una stagione dopo l’altra.

Una storia dopo l’altra, una generazione dopo l’altra, negli ultimi settant’anni il modo di raccontare le storie è molto cambiato:  gli strumenti per raccontare le storie sono cambiati (basti pensare prima alla tv, poi alla rete e ai social) e persino i raccontatori sono cambiati (oggi tutti raccontano storie da qualunque piattaforma, cercando di attirare la nostra attenzione con ogni mezzo possibile). I temi delle storie sono stati selezionati, una generazione dopo l’altra, (spesso in base alla loro consumabilità) fino a quando di certe storie non se ne è parlato più: alcune storie sono sparite dalle narrazioni condivise.

Alcuni argomenti sono diventati un tabù, e quindi per lungo tempo sono rimasti indicibili.

Alcune storie, dall’oggi al domani, sono scomparse, tagliate via, cancellate dalle memorie orali e da quelle scritte.

Le storie dei bambini nati morti, o dei bambini nati e vissuti per pochissimo, hanno iniziato ad essere mormorate a mezza bocca fino ad essere taciute, divenendo presto, e per parecchi anni, un non argomento. Un tema di cui non si può dire, che non si deve dire, nel tempo è divenuto  un tema di cui non si sa che dire, che non si sa comprendere e che facilmente viene lasciato da parte. Un non argomento appunto. Un tema privato di una solida radice di riferimento collettiva, troppo a lungo taciuto, diviene un tema sradicato, che ogni volta, per essere narrato, necessita di ricominciare da zero, ricercare memorie e parole in un immaginario non più condiviso.

La paura che le storie dei nostri bambini,  che i loro minuscoli corpi morti fanno (ancora oggi) alla società è tale da avere promosso, negli anni, furibonde barriere difensive: a partire dagli anni settanta le madri sono state sedate, affinché non ricordassero la disgrazia, i piccoli corpi negati allo sguardo, affinché il dolore fosse minimo, il silenzio è stato usato per cancellare ogni frammento della tragica esperienza, financo i frammenti incarnati, dai segni tangibili, negati anche quelli. I parti dei nati morti o dei morti dopo la nascita ad esempio sono divenuti indicibili. “Ah, ma quello non conta” – asserisce ancora qualche collega “scrivo in cartella solo i nati vivi”.

Le barriere della paura dei bambini morti sono difensive per chi le erge ma risultano offensive per chi se le trova davanti, per chi ci sbatte contro mentre già è costretto a brancolare nel buio del lutto.

La paura e le sue barriere difensive sono il nemico numero uno dell’elaborazione del lutto, perché impediscono il racconto, strappando via memorie, parole, immagini e trame di senso. Arrivano persino a delegittimare il senso che le madri e i padri vogliono dare, a quel bambino e a quella storia. Insistendo, con martellante e ottusa sicumera, che i figli si rifanno, che non si può attaccarsi a chi non si è mai conosciuto, che la vita va avanti. Chiedendoci di saltare quel capitolo della nostra storia, di non dargli troppo spazio, o almeno di non farlo tanto lungo. Consigliandoci di non farla tanto lunga, che non siamo i primi e non saremo neanche gli ultimi. Cercando di lasciare cadere le nostre storie nell’oblio, anche quando noi non vogliamo farlo.

Per generazioni, fino alla mia, molte donne hanno custodito da sole le loro storie di attesa, di parto, di amore e  di morte,  senza poterne fare parola con nessuno. Hanno ricamato nomi di battesimi mai avvenuti (i mille “si sarebbe chiamato“), volti, somiglianze e sembianze rubate per pietà o persino in cambio di favori, con il filo del pudore e della vergogna. Il pudore di portare per decenni un amore puro inscalfito e inscalfibile, rimasto prezioso soltanto per loro e la vergogna di essere quelle col figlio al cimitero, o nella fossa comune, o non si sa dove, perché hanno detto che era meglio non pensarci.

Qualcuna di loro, in punto di morte, ha rotto il silenzio davanti a imbarazzate specializzande e sbigottiti specializzandi, completamente impreparati a divenire custodi di memorie segrete, e hanno narrato, lucidissime e con occhi vividi di quei bambini e di quel sangue, di quei capelli e di quelle unghie bluastre, di quei divieti e di quel silenzio lungo una vita. Qualcuna, invece, ha portato con sé, nell’intimo del cuore, la sua storia senza parole, non dicibile e non detta.

Ecco, sono molte le cose che ho imparato da quelle donne custodi, le donne parlanti e le donne silenti: non c’è storia che non sia degna di essere narrata. Non c’è storia che non possa essere narrata. Non c’è storia che non possa essere ascoltata.

Ma: per narrare occorre avere in custodia immagini e parole. Per ascoltare, occorre che le immagini e le parole abbiano orecchie pronte ad accogliere una storia, a lasciarsene avvincere, concedendole attenzione, senza far prevalere il terror (cosa che il tabù, invece, sa fare benissimo). Per narrare le storie, occorre poter disporre di un inizio, uno svolgimento e una fine. Certe storie, le nostre, iniziano dalla fine. Certe storie vanno a ritroso nel tempo.

In molti, troppi casi, quelle storie, non possono essere raccontate, perché non ci sono abbastanza immagini e parole per dirle, quelle storie, mutilate dalle occasioni d’incontro, private del ricordo, private di uno spazio narrativo.

La donna che decide di diventare madre e inizia a pensare all’idea di un figlio o di una figlia; l’uomo che sceglie di diventare padre e inizia a pensare a cosa farà insieme ai suoi figli, dopo che saranno nati; i figli e le figlie che crescono, giorno dopo giorno nei mesi dell’attesa, crescono anche se nessuno li vedrà vivi, o se le loro vite saranno brevissime. Crescono e iniziano a tracciare trame relazionali con una certa precisione, a partire dalla seconda metà della gravidanza, grazie al fiorire di sinapsi che permettono una progressiva immersione nel mondo; per molte settimane il mondo sarà fatto di voci, di mani, di luce e di buio, di stimoli e risposte, di azioni e reazioni. In quello spazio dove tutto è in divenire e niente è ancora compiuto si svolgono le vite dei nostri amati bambini: nessuna predazione di ricordi, per quanto aberrante e ingiusta, nessun divieto a vedere, conoscere, nominare, salutare, seppellire, potrà mai rubare queste trame di sensi dispiegate nei mesi dell’attesa.

Potrà, semmai, prolungare il lutto, ma mai, mai, cancellare ciò che è stato.

Ecco perché, sarebbe il tempo di tornare a raccontare e ad ascoltare con rispetto le storie di tutte. Ecco perché, sarebbe il tempo di imparare a usare nei reparti ospedalieri la memory box e superare le muraglie issate dalle paure e dai pregiudizi di chi ci ha preceduto.

Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.

Eugenio Montale

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