Eppure, io ti guardo

by Claudia Ravaldi
G.Presutti
G.Presutti

Ci manca non avere nulla di te. Manca ancora oggi, che non c’è più quasi dolore, non c’è quasi più lutto. Ci manca un’immagine da carezzare con lo sguardo, da sfiorare con le parole della tua storia, che è nostra. Ci manca poterti raccontare e ci manca il non poterti rendere manifesto. Nella tua bellezza misteriosa di viaggiatore.

 

Il denominatore comune di tutte le foto è sempre il tempo, il tempo che scivola via tra le dita, fra gli occhi, il tempo delle cose, della gente, il tempo delle luci e delle emozioni, un tempo che non sarà mai più lo stesso.
(Jeanloup Sieff)

Eppure, io ti guardo.

Sei nato dopo essere morto, dopo un piccolo travaglio, a un soffio dal termine di gravidanza.

Sei nato altrove.

Hai lasciato qui, nella mia pancia, nella tua unica casa, il tuo bellissimo corpo, che abbiamo costruito insieme, molecola dopo molecola, cellula dopo cellula, in nove mesi emozionanti e pieni di progetti.

Hai lasciato il tuo corpo, il tuo nome, il nostro amore.

Quello, bambino mio, lo continuo a sentire, ancora.

Lo sentirò, per sempre.

Sotto questo amore profondo, apparentemente di breve durata, ma avvolgente come un manto, è rimasto il potere di uno sguardo, è rimasto un incontro fugace: un dito passato sopra il tuo bellissimo naso.

Sotto questo amore c’è un volto.

Un volto immaginato per mesi, sognato, anelato.

Un volto che è stampato a fuoco nella mia mente e in quella di tuo padre.

Un volto che è un privilegio.

Un privilegio per cui ho dovuto lottare.

Nel 2006 , in Italia, infatti, “era meglio non vederli, i bambini come te”

Nel 2006 il lutto perinatale era un “penoso incidente di percorso”, da dimenticare in fretta.

Un feroce tabù.

Una stranezza, sentirsi in lutto per un qualcuno che neanche si era conosciuto, e che era preferibile non conoscere affatto.

Tu non avevi importanza.

Il tuo volto, sarebbe dovuto restare “anonimo”.

Per proteggermi, dicevano.

Ma io avevo bisogno del tuo volto.

Avevo bisogno di ri-conoscerti, di capire che eri proprio TU, il mio secondo bambino acrobata. 

Il mio navigatore di spazi e di tempi paralleli.

Il mio bambino anarchico, prima morto, e poi nato.

Dopo che ti ho visto, incredula e grata, ho avuto paura di chiedere altro. Di chiedere ANCHE una foto.

Non sapevo ancora che questo mio desiderio sarebbe stato lecito, normale, materno.

Non sapevo ancora che le tue acrobazie di spazio e di tempo sarebbero presto diventate mie, mie e di tuo padre, e nostre, di migliaia di genitori italiani. Ho saputo, qualche notte più tardi, quando le mamme dei forum americani hanno cominciato a chiederci il tuo nome, per onorarti e ricordarti con rispetto. Dopo qualche notte ancora, alcune scrivendo sui forum per genitori in lutto ci hanno chiesto se potevano vedere le tue foto. Lì ho realizzato che se fossi nato negli Stati Uniti (e anche in tanti altri posti, in giro per il mondo) un’ostetrica e un assistente sociale avrebbero proposto un fotografo professionista e volontario per “suggellare” con un’immagine perfetta, il più perfetto degli amori.

Il nostro.

Il nostro amore, che è e resta indistruttibile. Anche se hanno provato a nasconderti. Anche se hanno provato a minimizzare.

Anche se non c’è alcuna traccia tangibile del tuo passaggio, che non sia carica di sola, immutabile, tristezza: ho un certificato di nascita morte. Ho il tuo punteggio APGAR, zero e zero. La tua autopsia. Ho la tua urna. 

Di te resta, imperituro, solo il fatto che sei morto.

Non la minima traccia della tua vita, precedente alla tua morte.

Nessun foglio di nascita, nessun braccialetto del parto, nessun impronta di piede, nessuna foto.

Eri così bello.

Non sembravi morto. Perlomeno, non ai miei occhi. 

Sembravi ciò che sei, il mio secondo bambino, sul quale i fratelli e i nonni fantasticano ancora oggi, a volte, le somiglianze.

Ci manca non avere nulla di te. Manca ancora oggi, che non c’è più quasi dolore, non c’è quasi più lutto. Ci manca un’immagine da carezzare con lo sguardo, da sfiorare con le parole della tua storia, che è nostra. Ci manca poterti raccontare e ci manca il non poterti rendere manifesto. Nella tua bellezza misteriosa di viaggiatore.

Molti mi hanno chiesto, mi chiedono e spesso non comprendono il senso di fare una foto ai bambini come te.

Cosa avrebbe aggiunto, avere una tua foto, mi dicono, guardandomi da debita distanza.

Nelle parole di Gianluca Nicoletti, nel suo recente post, c’è una parte della risposta alle molteplici ed incalzanti domande.  C’è infatti un valore intrinseco dello sguardo fotografico, là dove nulla o poco altro può essere ancora fatto. 

“Quello che in epoche lontane era un privilegio riservato solo ai figli di re e faraoni, oggi è possibile per qualunque bimbo ghermito dalla morte più vigliacca. E’ il massimo dono che possano offrire a dei genitori afflitti quei generosi artisti della fotografia del rimpianto, i soli capaci di fermare l’attimo dei quasi mai nati”

La foto come dono, come opportunità, come occasione di ri-conoscimento.

E’ importante che questo argomento venga approfondito periodicamente anche nella nostra cultura.

E’ importante che se ne parli come opportunità e come gesto di civiltà. 

Il nostro primo articolo dedicato al lutto perinatale raccontato per immagini è stato pubblicato nel Gennaio del 2010, sulla nota rivista Vanity Fair. Nelle parole di Silvia Nucini, che per prima ha firmato un lungo articolo sul tabù del lutto perinatale raccontando ai lettori di Vanity Fair la nostra associazione e il progetto fotografico di Giovanni Presutti, c’è un altro importante tassello della risposta che vorrei dare a chi chiede e non comprende:

Succede a tante, succede spesso, ma non si dice, perché – dai – è meglio non pensarci. E giù una pacca sulla spalla, un mezzo abbraccio, e la formula magica: «Ne farete un altro!».[…]
Francesca, Flavia, Silvia, Gina, Claudia e Barbara, le «mamme speciali» che ho incontrato per il servizio sui lutti perinatali – storie diverse, chi con più, chi con meno cocci in mano da rimettere insieme – avevano voglia di parlarmi dei loro bambini che non ci sono più, lo hanno fatto con gli occhi accesi, il sorriso sulle labbra. Le lacrime sono scese ripensando all’insensibilità delle persone, alla bolla di silenzio in cui la gente le ha chiuse, dopo. Da quando in qua il silenzio fa dimenticare? E poi, perché bisogna sempre dimenticare?

I genitori non dimenticano mai i loro amati ed attesi figli. Accettare questo, ci permetterebbe di guardare a ciò che resta con maggiore rispetto. Permetterebbe ai genitori di essere pensati come tali e come tali trattati. Permetterebbe ad amici, parenti, operatori di comprendere che fare una foto, una bella foto, non rientra nell’esibizionismo, non rientra nell’esagerazione, nella disperazione, nell’essere fuori di senno. Basterebbe posare uno sguardo su quelle foto, per accedere ad un mondo ricchissimo ed indelebile, nonostante il dolore della perdita: il mondo della genitorialità, del legame col bambino, dell’appartenenza. 

In questi anni, grazie al lungo lavoro che ho svolto con le famiglie e gli operatori, sempre più genitori hanno potuto incontrare i loro bambini acrobati, annusarli, tenerli in braccio, fotografarli. Sempre più famiglie, oggi, mi mostrano con orgoglio i nostri librettini dei ricordi compilati con dedizione e rispetto dagli operatori, le foto scattate da loro stessi o dal personale, per poter raccontare quei bambini, e le loro storie, con ricchezza di particolari di vita, e non solo di morte.

In questi anni abbiamo incrinato il tabù, lo abbiamo messo all’angolo, lo abbiamo costretto a fare un passo indietro.

Ma non si è ancora infranto.

I bambini come te, Lapo, fanno paura.

Succede, quando invece di guardare voi, ci si limita a guardare la morte.

 

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