L’automutuoaiuto: il modello di CiaoLapo

by Claudia Ravaldi

Insieme a Cristina Fiore, collaboratrice di CiaoLapo e referente per le attività dell’associazione in Liguria, parliamo di automutuoaiuto: cosa è e a cosa serve? 

CiaoLapo dal 2007 si occupa di diversi progetti relativi all’automutuoaiuto nel lutto perinatale e nelle gravidanze successive ad una perdita  in rete e de visu: negli anni abbiamo messo a punto un modello teorico ed esperienziale pionieristico (i primi gruppi specifici in Italia per questo tipo di lutto) e prototipico (abbiamo messo a punto un modello su basi teoriche e esperienziali che oggi stiamo riproducendo in numerose realtà italiane).

Prima di descrivere il nostro operato è necessario fare una premessa culturale: cosa è oggi, un gruppo di automutuoaiuto (GAMA) per la nostra società?

Il gruppo di automutuoaiuto nell’immaginario collettivo è ancora rappresentato come una temibile figura mitologica, a metà strada tra il minotauro persecutore e la chimera famelica: viene spesso visto come luogo destinato a “penitenti” che portano un dolore ingombrante che può essere condiviso solo da pochi; viene visto come “piangitoio” o “sfogatoio” dai molti disinformati, viene ritratto in film e libri come spazio “parallelo” al normale vivere, in cui si entra finché il problema che si porta non viene del tutto estinto. A quel punto, solo a quel punto si può tornare in società, alla vita di prima, stando bene attenti a non nominare né il gruppo né il problema che nel gruppo si è condiviso.

Nella nostra cultura, nonostante centinaia di evidenze contrarie, si ritiene ancora oggi che gli eventi di vita e i problemi ad essi correlati si elaborino archiviandoli, rimuovendoli, distraendosi. Per alcuni gli eventi di vita sono una “prova”, cui si dovrebbe reagire da soli dimostrando di essere forti. Reagire, dunque, andare avanti, senza condividere alcunché. Condividere in gruppo, per molti, è un atto sovversivo e bizzarro, pericoloso persino: uscire dalla dimensione privata, a fronte di numerose evidenze positive, è erroneamente visto come un mezzo per mantenere il problema, ingigantirlo, renderlo cronico, ed è spesso scoraggiato dagli addetti ai lavori, molto più orientati a utilizzare una “terapia individuale” per affrontare la questione (nonostante le evidenze ci dicano che GAMA e supporto psicologico sono due ambiti distinti e spesso complementari). Infine, buona parte della popolazione, compresi alcuni addetti ai lavori, tra cui i professionisti sanitari, ritengono che il lutto si risolva ancora meglio, in tempi più brevi, e più efficacemente con i farmaci.

Perché impiegare tutto quel tempo a parlare, quando con dieci goccine, puoi stare subito meglio?”

Ancora oggi, la parola condivisa e lo scambio di vissuti esperienziali sono ritenuti un palliativo inutile.

Immaginiamoci come sia difficile, con un pregiudizio di questi tipo, comprendere i presupposti teorici e i risvolti pratici di un gruppo di automutuoaiuto. Immaginiamoci per un attimo quanto sia difficile la posizione di chi, avendo paura del lutto e dei suoi derivati, è in difficoltà di fronte a un dolente per volta: immaginiamoci la sua sofferenza di fronte ad un esercito di dolenti, desiderosi di condividere. Il dolore non viene visto come oggetto di cura, ma come oggetto persecutore. Chiediamoci di nuovo, quindi perché i GAMA nella nostra cultura sono ancora così poco compresi ed accettati, ed i gama sul lutto più di tutti gli altri.

In questa curiosa dinamica tra i sostenitori del mondo parallelo (leggi: vai pure e torna quando starai meglio) e i sostenitori del “devi farcela da solo” (leggi: fatti forza e torna quando starai meglio), ci inseriamo io e Cristina Fiore: unendo insieme le esperienze professionali di gestione di gruppi (di psicoterapia, di psicoeducazione, di ascolto, di accompagnamento alla genitorialità) abbiamo iniziato a studiare, osservare, approfondire e poi confezionare un modello di automutuoaiuto per genitori colpiti da lutto perinatale che potesse prendersi cura in modo efficace ed empatico dei genitori in lutto e dei familiari interessati, utilizzando le dinamiche proprie dei gruppi di automutuoaiuto e dei gruppi di ascolto e riadattandole alla complessa realtà del lutto perinatale.

In questi anni di studio, osservazione e facilitazione di gruppi è emerso un quadro variopinto, pieno di spunti e sfumature spesso di difficile lettura e interpretazione. Ci siamo accorte subito che tra il dire “facilito un gruppo di automutuoaiuto” e il fare “il facilitatore di un gruppo di automutuoaiuto” c’è il solito abisso. Come tra il fare e il fare bene. Soprattutto quando si entra in una dimensione di profonda sofferenza e di estrema delicatezza quale quella di un’esperienza di vita traumatica che ha un impatto pervasivo e profondo non solo sui genitori ma anche sugli altri figli.

Del gruppo di auto mutuo aiuto si parla molto spesso come di un improbabile caravanserraglio in cui le schegge impazzite di dolore vagano senza meta. Tra gli addetti ai lavori e i facilitatori di gruppi serpeggia la convinzione che sia sufficiente a definire il muto aiuto “il muto accogliere passivamente qualsiasi espressione dolente”, l’occupare due ore di spazio per dare sfogo a dolori immutati ed immutabili. Questo, nell’ottica di CiaoLapo e dei suoi facilitatori è molto lontano dall’essenza del gruppo di automutuoaiuto.

Dobbiamo ricordare che l’approccio al gruppo, sia per operatori che per utenti, è decisamente potente. L’operatore si trova immerso in un circolare di vissuti che presentano importanti picchi emozionali e l’utente apre la sua storia e accoglie le altre in questa, sentendosi compreso e riassorbito, sballottato e risucchiato. Non si tratta dunque, di disporre sedie in cerchio e riempire a turno un tempo di parole. Si tratta, piuttosto di trasformare attraverso le parole, l’ascolto e lo spazio condiviso, la ferita identitaria inferta dal lutto in esperienza, certo dolorosa, ma non destruente.

 

Prendiamo allora in esame gli aspetti tecnici ed umani del percorso di gruppo e di ciò che dovrebbe avvenire in un gruppo che funziona secondo il modello autentico dell’automutuoaiuto.

Il mutuo aiuto è una dinamica propria dell’essere umano, e ha fondamenti sia biologici che sociali.

Specie nel campo della psichiatria e della disabilità fisica, si è assistito negli anni 90 a un proliferare di organizzazioni di utenti e di familiari del tutto autonomi dai servizi formali e dai loro operatori professionisti, se non spesso in aperta contrapposizione. Secondo gli appartenenti a questi movimenti, l’empowerment è una questione che li riguarda in via esclusiva, che non intendono delegare. Essi non si propongono un generico cambiamento sociopolitico, ma si impegnano in un’azione libera da condizionamenti o strumentalizzazioni professionali, in direzione dell’adeguamento legislativo, di una migliore definizione dei loro bisogni, di un’affermazione della loro identità rispetto all’opinione o alla cultura dominante, di una più adeguata azione di fronteggiamento dei loro problemi loro tipici, basandosi primariamente, fino a che sia possibile, sulle loro stesse risorse di auto mutuo aiuto.[1]

Il mutuo aiuto è riconosciuto come componente essenziale del lavoro sociale con i gruppi e chi si occupa di mutuo aiuto, come dice bene Steinberg[2], interviene sui bisogni personali e su quegli interpersonali e la sua attività riflette un approccio olistico al lavoro sociale. Dunque il gruppo è sia un sistema a se stante sia composto da singoli dei quali occorre tenere conto in quanto tali.

Il mutuo aiuto si fonda sull’assunto che le persone possono mettere in pratica e rafforzare le proprie risorse aiutando gli altri e, nello stesso tempo, aiutando se stessi.

“Eccomi. Sono salita a bordo di questa nave…”, scrive S. una partecipante del gruppo di auto mutuo aiuto CiaoLapo (Genova, ospedale Giannina Gaslini) sul diario di bordo[3], e rende bene l’idea, nel suo metaforico imbarco, del processo che è necessario affrontare fin dall’ingresso nel gruppo e ancora prima: pensarsi intenzionato a chiedere aiuto in primo luogo, e richiedere attivamente il colloquio di ingresso, sono due passaggi importanti per la partecipazione efficace ad un GAMA.

Steinberg definisce l’auto mutuo aiuto “oltre che processo… anche come un risultato”; ma perché si possa “tradurre il risultato” il mutuo aiuto deve riflettersi nel processo di interazione del gruppo. E perché questo avvenga, i membri del gruppo devono avere sia la capacità sia l’opportunità di comunicare e interagire tra loro disponendo della libertà di farlo.

Middleman e Wood (1990)[4], ci dicono che l’unico stile di comunicazione che promuove realmente questa pratica è quello che potremmo definire “libero e svincolato”. Questo stile di comunicazione si dovrebbe accompagnare ad un clima in cui si è trovato un equilibrio tra l’esigenza della libertà di esprimere i propri sentimenti e punti di vista dell’obbligo di rispettare costantemente quelli altrui.

Secondo l’esperienza ligure (gruppi attivi dal 2007), l’approccio che più si addice alla facilitazione di un gruppo che ha come tema fondante il dolore per la perdita di un bimbo in epoca pre o perinatale, è quello “centrato sulla persona”, essendo l’idea rogersiana fondata sulla fiducia che in ogni uomo esista una tendenza attualizzante, propulsiva, che lo spinge, se esiste un terreno facilitante, verso la propria resilienza.

Tralascio in questa sede, le tematiche note dell’andamento generale del gruppo di auto mutuo aiuto, rinvenibili in ogni buon manuale del settore e cercherò invece di offrire una panoramica sullo specifico GAMA CiaoLapo.

Mi sembra corretto sottolineare che il genitore che accede ad un GAMA fa parte di un sottogruppo di genitori che ha bisogno di aiuto e che lo riconosce. In un GAMA non sono quindi rappresentati tutti i genitori ma una minoranza, che non è più in uno stato di congelamento emozionale, almeno per quel pezzo necessario che permette di chiedere aiuto e di farsi aiutare.

Le modalità di accesso al gruppo mutano per invio, tempistica e altre variabili meno frequenti ma altrettanto importanti e da tenere conto per migliorare l’andamento del gruppo stesso.

L’obiettivo del GAMA, da tener presente in ogni momento della vita del gruppo, è che l’utente esca dal gruppo stesso e riacquisti una normale vita di relazione, in cui il non sia più necessario accedere all’auto mutuo aiuto come “unico luogo di salvezza”.

La prima specifica che appare al facilitatore è l’estrema differenza che si nota tra il genitore che sente di essere stato accolto e quello che, per contro, ha registrato un vissuto di rifiuto o di “maltrattamento” durante la sua ospedalizzazione. Nel primo caso l’accesso al dolore è più pulito, meno sfiduciato, più in grado di essere contenuto.

Il lavoro nucleare, che ruota intorno ai genitori in lutto, si traduce inizialmente in una narrazione che ha come soggetto il bimbo mancato troppo presto e che non prescinde da un quadro di spiegazioni relativamente all’evento in sé. I genitori si soffermano sulla storia clinica del loro piccolo, sull’evento nascita (che sia essa spontanea o seguita a dolorose decisioni di interruzione) e sulla ricerca delle cause di morte, spesso non chiare nei primi tempi dopo il decesso.

Le emozioni che abitano questa parte del lavoro hanno come sottofondo, com’è comprensibile, il dolore straziante ma emergono da questo punte di rabbia, di stupore, di incredulità, di rancore e di amore senza confine e senza domicilio che ha imperativa necessità di trovare dignità.

Superata l’esigenza di presentare se stessi e la propria storia agli altri componenti del gruppo, questo si dirige naturalmente verso temi di volta in volta emergenti da vissuti domestici e sociali di questo periodo della vita della famiglia in lutto: il rapporto con gli altri, il prima e dopo, la speranza, la progettualità, la paura…

“Mia figlia mi manca sempre di più e mi sento sempre in attesa della mia bambina”, dice G.; “Ho la sensazione di aver lasciato qualcuno fuori dalla porta”, dice A.; e ben arriva la dimensione sospesa di qualcosa di interrotto in modo innaturale, e a questa dimensione si cercano risposte.

  1. e D. rispondono a questa tensione augurando a tutti i genitori “i cui figli hanno abbandonato il loro corpo, di far rinascere il loro vero sé selvaggio” (riferendosi ad una lettura che avevano fatto insieme dopo la morte della loro piccolina) e continuano dicendo che solo così, forse, il dolore potrà trovare un senso anche se non avrà mai spiegazione.

Il dilemma che nasce e ruota intorno alla “spiegazione”, al senso, è pregnante il gruppo. Negli anni, pur cambiando utenti, questo nucleo torna imperativamente a farsi sentire nella modalità e nei termini del dolente che cerca una via nella bufera della perdita.

Il bambino è presente anche in un pensiero progettuale interrotto “penso come saresti stata da grande, il primo giorno di scuola, il tuo primo bacio” dice S. e “quando guardo mio nipote vedo il mio A., si sarebbero assomigliati molto” aggiunge un’altra mamma; e C. “parlare di quello che sto provando mi ha dato la possibilità di dare giusta dignità ai miei figli perché non si perdessero nell’oblio del tempo”.

Quale dimensione apre il gruppo oltre a quella della condivisione?

Credo di poter affermare che si tratta di un vero e proprio processo trasformativo nel quale la dimensione di partenza, la morte, non è modificabile in nessuna sua parte; il lavoro che vede impegnato il dolente, purché si ingaggi in questo, è la dinamica con cui si approccia alla perdita, modellandola in parte integrante di sé, nella duplice forma di disperazione ma anche di amore che esiste e resiste, anche alla morte, e che ha dignità di esistenza.

“È come se un atleta fortissimo, che ha vinto tanti premi, il giorno prima della gara, si ritrovi senza l’uso delle gambe”, dice S. “col tempo imparerà a fare altro, magari anche a gioire per le vittorie degli altri pur permanendo la consapevolezza che le sue gambe non ci sono più”; e A. aggiunge “non una gara qualunque, la gara più importante della sua vita”.

Essendo il gruppo aperto, una altra situazione che ci troviamo ad osservare, è la ricalibrazione ogni volta che si accoglie un nuovo utente; i genitori sono sottoposti all’enorme sforzo di riaprirsi al dolore ma in qualche modo ne ricevono in cambio la restituzione del loro stesso potere di cura; quale migliore tendenza attualizzante?

 

E il facilitatore?

L’helper, in quanto catalizzatore del movimento di maturazione, chiarificazione, apprendimento (Carkhuff e Berenson, 1976)[5], condizioni che contraddistinguono una relazione d’aiuto, comprende che è comunque tutta dell’helpee la fatica e la responsabilità della ricerca della strada più adatta a sé.

Riposizionarsi in un luogo in cui la relazione d’aiuto è davvero strumento di libertà[6] per far sì che la persona abbia intorno a sé condizioni favorevoli alla crescita ed arrivi nuovamente ad attingere ad autonomia, dignità e autostima proprie, è titanica impresa che coinvolge l’operatore in un gioco di ancoraggi nei quali spesso più che protetto si sente inchiodato.

Secondo il modello rogersiano classico la relazione d’aiuto porta il cliente sulle soglie dell’azione aiutandolo ad autocomprendersi, ad esplorare proprie esperienze, comportamenti, emozioni; ad avere ben chiaro il quadro delle scelte circa i possibili cambiamenti personali.

Possiamo però trovarci di fronte a qualcuno che vive con potenzialità di giudizio e comprensione momentaneamente offuscate e compromesse e che attinge allo strumento di aiuto per cercare di recuperarle.

Nel 1942 Carl Rogers in “Counseling and Psychoterapy” sottolinea come nessuno occupi una posizione migliore del soggetto stesso per sapere quali siano i suoi problemi e che il focus dovrebbe essere la modalità di integrazione delle proprie esperienze quale essa sia.

Nel caso in cui il cliente, e accade spesso quando viene richiesta una consulenza relativa ad un lutto, sia congelato nel suo dolore, l’operatore vive un’esperienza frustrante di impotenza e talora di inutilità e qui insorge il grande rischio dell’intervento forzato, a sbloccare quel tempo che diviene insopportabile anche per l’helper.

Pur andando oltre il modello strettamente rogersiano in cui per produrre un cambiamento terapeutico della personalità sono condizioni necessarie e sufficienti empatia, accettazione e congruenza; ed abbracciando un modello di più ampia considerazione di intervento quale quello proposto da Carkhuff e Berenson, dove tra le helper skills sono annoverati anche il confronto e l’autoapertura, l’enfasi della relazione d’aiuto continua ad essere sul cliente, come persona capace di attivazioni necessarie all’integrazione e allo sviluppo della propria tendenza attualizzante, e quindi più in generale sul gruppo tutto.

L’operatore a cui l’impatto con il dolore congelante crea un problema, diventa anch’egli soggetto in crisi; il modo di affrontare il dolore dell’helpee lo spiazza e lo rende insicuro e frustrato. L’attivazione rispetto ad una forzatura del processo non è quindi che una risposta ad un proprio disturbo, ad un disagio del so-stare.

Le skills richieste all’helper nella relazione d’aiuto, sia one to one che come facilitatore di un gruppo, sottolineano che il significato tecnico della centratura sulla persona è condizione necessaria affinchè ci sia un efficace facilitazione.

Spostare l’attenzione verso il processo d’aiuto in quanto tale potrebbe permettere all’operatore di uscire dal disagio frustrante della sosta nell’altrui dolore mantenendo un atteggiamento di interesse aperto, non direttivo, non giudicante, con autentica intenzione di comprendere l’altro nel significato che la situazione ha per lui e con uno sforzo costante per rimanere obiettivo e per controllare ciò che avviene nella relazione in se stessa.

La fatica che era stata spostata, nell’approccio centrato sulla persona, dalla responsabilità dell’helper a favore del coinvolgimento del cliente come unico soggetto competente rispetto al suo disagio, si carica ora nel controllo costante ed attento del sistema-relazione come strumento di crescita.

 

[1] Bruno Bortoli, Fabio Folgheraiter: “Lavoro Sociale”, vol 2, n 2, sett 2002 (pp 273-281), Ed. Centro Studi Erickson

[2] D.M. Steinberg, L’automutuo aiuto”, Erickson

[3] Quaderno che si scambiano i partecipanti del gruppo dov’è possibile annotare racconti, pensieri, poesie, canzoni, ricordi, immagini…

[4] Middleman R. e Wood G. G., Skills for direct practice in social work, New York, Columbia University Press

[5] Carkhuff R.R. e Berenson B. (1976), Teaching as treatment. An introduction to counseling and psychoterapy, Amhrest, Human Resource Development Press, Inc.

[6] Giordani B. (1977), La relazione d’aiuto secondo l’indirizzo di Carl Rogers, Brescia, La Scuola-Antonianum.

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