Il lutto perinatale e i bambini

by Claudia Ravaldi

Di chi è il lutto perinatale? Chi soffre di più? È un lutto privato e quindi incondivisibile? I bambini si accorgono del dolore dei genitori? I genitori dovrebbero tenere i bambini al di fuori del lutto e dell’evento che ha colpito la loro famiglia o includerli nel percorso di elaborazione? Il lutto è una “roba da adulti”? Se ho perso un bambino, cosa dico ai fratelli che lo aspettavano da tanto? Come posso evitare che soffrano? Come posso farmi forza in modo che loro non si accorgano che sono morta dentro?

Queste sono solo alcune delle domande che in questi dieci anni di attività sul lutto perinatale mi sono state poste, per mail o in consulenza vis a vis. Le domande arrivano per lo più da donne, dalle madri in lutto, a volte da zie o nonne, più raramente dai padri. Negli ultimi anni sono iniziate ad arrivare domande da maestre ed educatrici, alle prese con il lutto di un bambino inserito nelle loro classi.

Il lutto perinatale è ancora poco riconosciuto nella nostra società e tra gli addetti ai lavori. Ci si interroga ancora sulla liceità di questo lutto, sul fatto che sia cosa buona e giusta che i genitori lo elaborino con i loro modi ed i loro tempi, spesso si hanno gravi pregiudizi sul “quanto” sia lutto, sul “quando” debba finire e sul “come” si elabora questo tipo di lutto.

Spesso si chiede ai genitori di “essere forti” e guardare al futuro con ottimismo, rapidamente. Spesso si utilizzano i figli già presenti come leva, per “spronare” i genitori a farsi forza, a guarire presto.

 In tutta questa ignoranza, ci perdiamo molto spesso la coppia che dovremmo sostenere, e tutte le persone che gravitano intorno alla coppia.

Compresi gli eventuali altri figli, spesso ancora piccoli, a volte adolescenti provenienti da precedenti matrimoni, che rimangono tagliati fuori da qualunque tipo di programma di assistenza e supporto, dimenticati in un angolo fuori dal lutto che i genitori stanno sperimentando, eppure così tremendamente esposti proprio a questo lutto, e alle sue fisiologiche conseguenze.

Mi chiedo perché in Italia non si riesca a pensare al lutto come ad un evento “sistemico”, collettivo, che riguarda e condiziona non solo chi ne è direttamente colpito (la donna che perde il figlio che aspettava) ma tutti coloro che gravitano intorno a questa donna, e con lei si relazionano. Perché “usiamo” gli eventuali figli presenti come mezzo per elaborare il lutto, spesso in maniera forzosa, anziché considerarli, come già avviene in altri paesi europei, parte in causa del processo di lutto, meritevoli di attenzione e di sostegno? Perché non riusciamo a vederli come fine del processo elaborativo?

Il focus dell’intervento dopo un lutto perinatale dovrebbe essere non solo medico, ma come ho già scritto centinaia di volte anche psicologico.

Questo intervento di sostegno che dovrebbe essere fornito in ospedali e consultori come parte della cura, e quindi con un costo sostenibile per le famiglie, dovrebbe essere rivolto non soltanto alla donna, ma alla coppia e ai figli e quando richiesto ai parenti più stretti e gli amici intimi, con cui si è condivisa l’attesa, che a loro volta sono colpiti dal lutto e restano spesso ai margini di qualunque possibilità di sostegno.

Nel caso in cui siano già presenti dei figli, dovrebbe sempre essere offerto un sostegno ai genitori per affrontare il lutto con loro. Non PER loro, o GRAZIE a loro, ma CON.

Eppure i bambini dopo un lutto perinatale sono spesso tenuti da parte. Entrano in stand-by, e si orientano come possono, spesso in base al loro temperamento e al  legame che negli anni hanno instaurato con i loro genitori e familiari. Fanno quello che possono, grazie alle loro innate ma non infinite risorse, a volte chiudendosi in un mondo parallelo in attesa che i genitori tornino quelli di prima, a volte sostituendosi ai genitori assumendosi l’onere di curarli, e farli sorridere di nuovo. Quanto lavoro per una piccola persona che sta crescendo e dovrebbe ricevere supporto dagli adulti, stimoli per crescere e trovare la strada per affrontare, di volta in volta gli eventi della vita.

Lasciamo soli i bambini delle famiglie colpite da lutto, di volta in volta “troppo piccoli” per capire cosa è successo o “troppo grandi, troppo adolescenti” per tentare un contatto. Li lasciamo soli, e li temiamo, persino. Quanta simpatia proviamo, per quei bambini sfortunati! Quante cose (brutte) vorremmo dire di volta in volta alle mamme che non si fanno abbastanza forza, e non riescono più ad andare ai giardinetti perché ci sono le carrozzine degli altri neonati, quanto vorremmo suggerire loro di sbrigarsi ad elaborare il lutto, che sennò i bambini stanno male.

Questa è la sintesi dell’intervento più frequente nella nostra società.

Avere personalmente paura del lutto ma dispensare comunque soluzioni per i lutti degli altri.

Avere paura / pietà / commiserazione del bambino in lutto.

Giudicare i genitori per la loro incapacità di “farsi forza” dopo il lutto.

E’ piuttosto ovvio che questo NON è un intervento terapeutico.

Spero che gli addetti ai lavori ne siano consapevoli. Spero che siano consapevoli dei danni che questo “neglect” sociale e professionale provoca nei bambini e nei ragazzi in lutto.

Spero che sia chiaro che chiedere a un genitore in lutto di farsi carico del lutto degli altri, in un momento in cui le risorse sono al lumicino, è una forma di sadica violenza, laddove offrire un sostegno che miri a implementare le risorse di tutti permette ai genitori di centrarsi sia sul loro lutto che su quello dei loro cari. Questa capacità di allargare il “focus” a una dimensione più sistemica e non esclusivamente personale permette ai genitori di trovare più facilmente stimoli e risorse per elaborare il lutto e in conseguenza di ciò, di avere più strumenti anche per gestire il lutto e tutto il resto della loro quotidianità con i figli. 

E allora, forse, dovremmo iniziare a vedere il lutto in una prospettiva sistemica e sociale. Invece di decretare  “chi soffre di più” e offrire sostegno solo alle donne, invece di assillare le donne e le coppie con inviti pressanti a “stare bene” in nome dei loro “figli”, forse potremmo sostituire la nostra simpatia con la più funzionale empatia. E stare, esserci, tollerare che il lutto colpisca tutta la famiglia e la impegni in dinamiche complesse per molto tempo. Tollerare di osservare in modo disponibile e presente, senza intervenire con forzature inutili. Lasciare la coppia e i suoi figli liberi di sperimentare il LORO lutto, e liberi di chiedere aiuto e supporto, quando necessario.

Dobbiamo avere fiducia nella resilienza dei genitori, e in quella dei loro figli. Dobbiamo poterla favorire, dobbiamo lasciarli liberi di coltivarla, testimoni di un processo di elaborazione che è anche un’occasione di crescita, per i singoli e per la famiglia.

 

 

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