Aborto e morte in utero: il documento OMS per un’assistenza rispettosa

by Claudia Ravaldi

Il 13 Marzo 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato questo atteso documento su aborto, morte in utero e assistenza rispettosa.

Ecco la traduzione italiana del documento originale con alcuni commenti, in corsivo, relativi alla situazione in Italia.

Perdere un bambino durante la gravidanza per aborto spontaneo o morte in utero è ancora un tabù in tutto il mondo, che si associa a stigmatizzazione e vergogna.

Molte donne ancora oggi non ricevono una cura appropriata e rispettosa quando il loro bambino muore durante la gravidanza o al momento del parto.

Le storie raccolte dall’OMS, provenienti da varie parti del mondo sottolineano infatti numerose criticità.

L’aborto spontaneo è la più comune causa di morte di un bimbo durante la gravidanza.

Le stime variano da paese a paese, sebbene March of Dimes, un’organizzazione che lavora per la salute materna e infantile indichi che l’aborto ha un tasso compreso tra il 10% ed il 15% di tutte le donne che hanno iniziato una gravidanza e sanno di essere in attesa.

La morte prenatale è definita in modi diversi intorno al mondo, ma a grandi linee quando un bambino muore prima delle 28 settimane di gravidanza questo evento è classificato come  aborto, e quando un bambino muore dalla 28 settimana in poi questo evento è classificato come morte in utero.

In Italia la morte in utero viene classificata come tale a partire dal 180° giorno di gravidanza, corrispondente alla 25° settimana di gestazione più cinque giorni.

Questa definizione che è di tipo anatomo-clinico, non ha nulla a che vedere con gli aspetti psicologici della perdita e con il lutto percepito dalla madre e dalla coppia.

Il lutto ha una dimensione soggettiva e che non può essere “misurata” in settimane gestazionali.

Il lutto che avviene durante la gravidanza e nell’anno successivo al parto avviene nel periodo perinatale, pertanto può essere definito lutto perinatale.

Ogni anno, 2.6 milioni di bambini nascono morti e molte di questi eventi sono evitabili. Purtroppo, gli aborti e le morti in utero non sono sistematicamente registrati, anche nei paesi sviluppati, compresa l’Italia: questo suggerisce che i numeri potrebbero essere più elevati.

Nel mondo le donne hanno accesso a diversi tipi di servizi sanitari; in molti paesi ospedali e cliniche offrono spesso servizi sottodimensionati per carenze strutturali e di personale.

Anche se l’esperienza di perdita può essere molto varia, in quanto soggettiva, nelle diverse parti del mondo, lo stigma, la vergogna e il senso di colpa emergono essere temi a comune per la maggior parte delle donne.

Come dimostrano molte storie, riprese dall’OMS, dall’ISA e nelle serie monografiche di Lancet 2011 e Lancet 2016 sulla morte in utero, e come riportano centinaia di donne italiane, le donne che perdono i loro bambini sono fortemente condizionate dall’ambiente circostante a tacere rispetto al loro lutto, o perché l’aborto e la morte in utero sono così comuni da non meritare troppa attenzione, o perché sono ritenuti “inevitabili”.

Jessica Zucker, psicologa clinica e scrittrice, USA

“Come psicologa clinica mi sono specializzata in salute mentale e riproduttiva e ho lavorato su questo argomento per più di dieci anni. Da quando ho sperimentato io stessa un aborto a sedici settimane, ho potuto toccare con mano l’angoscia e quanto intricato sia il percorso di lutto di cui le mie pazienti mi hanno parlato per anni. Dopo la mia perdita ho promosso una ricerca che mostra che una grande maggioranza di donne riporta sentimenti di vergogna, colpa e autoaccusa dopo la perdita prenatale”
Il prezzo che le donne pagano per questo silenzio e per questa indifferenza generale è molto alto.
Molte donne che perdono un bambino durante la gravidanza possono sviluppare disturbi psichici che durano mesi, o anni, anche dopo una gravidanza finalmente conclusa con la nascita di un bambino in buona salute.
Gli aspetti culturali e gli atteggiamenti sociali verso chi perde un bambino in gravidanza possono essere estremamente diversi nei vari paesi del mondo. Nell’Africa Sub-Sahariana una credenza comune è che il bimbo possa nascere morto a causa di stregonerie o di spiriti maligni.
Nel nostro paese si tende ancora oggi ad attribuire questo evento tragico a qualche “leggerezza” commessa dalla madre, a qualche errore commesso dai medici, o più banalmente, al “destino”.
Ancora oggi, anche nella nostra cultura, è molto raro incontrare persone che adottino un approccio rispettoso, aperto, possibilista e colto di fronte a questi eventi. Purtroppo il fatalismo è ancora largamente diffuso anche tra gli operatori sanitari, che invitano le madri a “farsene una ragione” e a evitare approfondimenti diagnostici, anche quando previsti dalle leggi vigenti (si legga, per completezza questo documento del Ministero della Salute del 2014 e quanto scritto in Gazzetta Ufficiale)
Il risultato di queste generalizzazioni fatalistiche è che i genitori si sentono soli, non compresi e abbandonati di fronte alle loro perdite, senza i necessari riferimenti medici e psicologici.
Larai, 44, farmacista, Nigeria
“Affrontare il mio aborto è stato traumatico. Lo staff medico ha ulteriormente ingrandito il mio lutto, nonostante io stessa sia un dottore. L’altro aspetto rilevante è l’approccio culturale. In molte culture africane tradizionali, le persone pensano che tu puoi perdere un bambino a causa della stregoneria. Qui la perdita prenatale è circondata dallo stigma perchè molte persone credono che ci sia qualcosa che non va nelle donne che hanno perdite multiple, ad esempio che sono state promiscue, e che per questo sono punite da Dio”
Le persone, specialmente quelle più famose, usano i social media per condividere le loro esperienze, come è successo a Kimberly Van Der Beek e a suo marito, l’attore James Van Der Beek, meglio conosciuto per il suo ruolo nella serie televisiva americana Dawson’s Creek. La coppia di recente ha condiviso un post molto toccante su Instagram, dove hanno apertamente parlato della sofferenza legata alla poliabortività e al loro percorso per affrontarla al meglio.

Le parole del mitico Dawson sono un grande dono per le coppie e soprattutto per i padri che si confrontano con il dolore che sperimentano sulla loro pelle e su quella delle loro compagne, con tutte le sfaccettature che il dolore assume.

Un passaggio in particolare vorrei condividerlo con voi: “Non giudicate il vostro dolore, non tentate di razionalizzarlo. Lasciatelo scorrere nelle varie ondate, così come arriva, offritegli lo spazio giusto”. Non ci sono istruzioni per elaborare il lutto, non ci sono ricette uguali per tutti o strategie per fermare le ondate. La vera strategia è lasciarle arrivare imparando a nuotare e riposarsi tra un’ondata e l’altra. Grazie Dawson! 

Ci sono molte ragioni per cui avviene un aborto, tra queste anomalie del bambino a livello di sviluppo embrionale o fetale, l’età materna, le infezioni, alcune delle quali prevenibili, come malaria e sifilide: alcune cause sono ad oggi misteriose e rimangono inspiegabili.

Alcuni consigli generali per evitare l’aborto si focalizzano sull’importanza di una sana alimentazione e di un esercizio fisico regolare, sull’astenersi da fumo, droghe e alcol, sul limitare la caffeina, controllare lo stress e mantenere un peso salutare. (Interessante notare che lo stress percepito sia tra le principali cause di ricerca compulsiva di strategie per ridurre lo stress, tra le quali, ahimè rientrano il binge eating, il fumo, l’alcol. È evidente che dobbiamo lavorare su ansia e stress, perché riducendo quelli di conseguenza riduciamo anche i comportamenti di abuso.) Questa enfasi sugli stili di vita, in assenza di cause specifiche, può portare le donne a sentirsi colpevoli di aver causato l’aborto.

La colpevolizzazione aumenta lo stress e quindi potenzia il ricorso a strategie di compenso. Sarebbe opportuno investire la giusta quantità di tempo per lavorare con le donne e le coppie con una storia di aborto o morte in utero in modo da creare la giusta alleanza terapeutica e favorire l’adesione a eventuali stili di vita più corretti, riducendo lo stress anzichè aumentarlo.

Lisa, 40, marketing manager, UK

“Ho avuto quattro aborti. Ogni volta che accade, muore una parte di te. Il più traumatico è stato il primo. Eravamo così felici per l’arrivo del bambino. Ma quando siamo andati all’ecografia delle dodici settimane ci è stato detto che avevo un aborto interno, chiamato anche aborto silenzioso, che significa che il bambino era già morto da qualche tempo dentro di me ma il mio corpo non aveva manifestato alcun segno di questo evento. Io ero devastata. Non potevo nemmeno credere che mi stessero rimandando a casa con il mio bambino morto nella pancia, e nessuna indicazione su cosa fare.”

Esattamente come accade in altri ambiti, come ad esempio nella salute mentale, intorno al lutto prenatale permane ancora un tremendo tabù, molte donne riferiscono che, indipendentemente dalla loro cultura, i loro amici e familiari non vogliono parlare del loro lutto. Questo avviene peraltro anche per tutti gli altri lutti

Susan, 34, scrittrice, USA

“Sono stata trattata per infertilità per quasi cinque anni. Quando è iniziato il mio percorso di procreazione medicalmente assistita, ho imparato velocemente che non avevo nessuna idea di cosa stesse accadendo: ero davvero fisicamente ed emotivamente esausta. Fortunatamente sono rimasta incinta, io e mio marito eravamo veramente felicissimi. Nonostante questo, dopo sette settimane il bambino ha smesso di crescere. Ho dunque sospeso gli ormoni, e dopo altre due settimane è iniziato l’aborto. È durato diciannove giorni. Non ho realizzato subito che l’aborto fosse un lungo processo fatto di dolore e sanguinamento. Che la realtà della fertilità e dell’aborto fosse avvolta dalla vergogna e dal silenzio.”

Le morti in utero avvengono a gravidanza inoltrata, 1 su 2 durante il travaglio, molte sono evitabili. Circa il 98% delle morti in utero avviene nei paesi a basso e medio sviluppo. Una migliore qualità di cura durante la gravidanza e il parto può prevenire mezzo milione di morti in utero nel mondo. Anche nei paesi ad alto sviluppo, anche in Italia, le cure al di sotto dello standard sono un fattore di rischio significativo per le morti in utero.

Ci sono modi efficaci per ridurre il numero di bambini che muoiono durante la gravidanza – migliorare l’accesso alle cure antenatali (in molti paesi del mondo le donne non vedono un operatore sanitario finché non sono a gravidanza avanzata), introdurre l’accesso alla continuità di cura e introdurre la cura sul territorio quando possibile.

Emilia, 36, negoziante, Colombia

“Quando ho avuto una morte in utero a 32 settimane il mio bambino aveva già un nome. Corsi nella clinica con una pressione sanguigna davvero molto alta. Dopo la visita il medico mi disse di riposare e prendere dei farmaci per abbassare la pressione.Dopo una settimana avevo gli stessi sintomi. Il dottore mi fece immediatamente un’ecografia e mi disse che il bambino non dava segni di vita. Se io avessi ricevuto più informazioni fin dall’inizio e avessi ricevuto più attenzione nei momenti difficili, il mio bambino sarebbe forse stato salvato.”

Come le donne vengono trattate durante la gravidanza è strettamente connesso ai loro diritti sessuali e riproduttivi; molte donne nel mondo non possiedono ancora questa autonomia.

In molti paesi del mondo la pressione sociale spinge le donne a rimanere incinte quando non sono fisicamente o psicologicamente pronte. Anche nel 2019, 200 milioni di donne che volevano evitare una gravidanza non hanno potuto accedere alla contraccezione. Quando rimangono incinte, 30 milioni non possono partorire in ambienti salutari e circa 45 milioni ricevono cure antenatali del tutto inadeguate: questo mette le madri e i bambini a rischio di complicanze e di morte.

Divya Samson Panabakam, 30, consulente, India

“Ho avuto il mio primo aborto spontaneo nel 2013. Appena ho iniziato a sanguinare sono andata in ospedale e lì mi hanno subito inviato a fare un’ecografia, ma la persona incaricata ha pensato che non fossi sposata e quindi mi ha fatto aspettare. Le ho chiesto: anche se non fossi sposata, perché tratti una persona che sta perdendo un bambino in questo modo? Lei mi ha guardato appena e ha risposto: Non è un’emergenza, solo una donna sopra i sessant’anni potrebbe rappresentare un’emergenza.”

Le pratiche culturali come le mutilazioni genitali femminili (FGM) e i matrimoni con le spose bambine sono veri e propri attentati per la salute sessuale e riproduttiva delle ragazze, e per la salute dei loro bambini. Avere bambini troppo presto può essere pericoloso per le madri e per i bambini. Le madri adolescenti (10-19 anni) sono più a rischio di avere eclampsia e infezioni uterine delle donne tra i 20 e i 24 anni, e questo aumenta il rischio di morte in utero. I bambini nati da madri con meno di 20 anni sono inoltre più a rischio di essere sottopeso, prematuri,  o avere gravi problemi alla nascita. Tutte queste condizioni aumentano il rischio di morte in utero.

Le mutilazioni genitali femminili aumentano il rischio durante il travaglio, di emorragia, di lacerazioni gravi, nonché il ricorso a parto operativo. I bambini nati da madri con FGM sono più a rischio di necessitare di rianimazione e hanno un aumentato rischio di morte durante il travaglio o dopo la nascita.

Mettere le donne al centro della cura è essenziale per una esperienza di gravidanza e parto positive. gli aspetti biomedici e fisiologici della cura devono essere integrati con il supporto sociale, culturale, emotivo e psicologico.

Ancora troppe donne, anche nei nostri paesi ad alto sviluppo economico, anche in Italia, ricevono cure inadeguate dopo avere perso un bambino. Il linguaggio usato per parlare di aborto e morte in utero può essere di per sè molto traumatico, e sarebbe opportuno curare le parole quando si parla con donne e coppie che stanno affrontando un evento altamente traumatico.

“Incompetenza cervicale” “Uovo cieco”, “Fetino”, “Si è strozzato col cordone”, “Materiale Abortivo” sono solo alcune delle parole che i genitori ritengono poco appropriate e poco curate nel momento della diagnosi, del ricovero o del follow-up. Per approfondimenti sulle strategie di comunicazione da utilizzare in questi casi puoi leggere La morte in attesa

Andrea, 28, stilista, Colombia

“Quando ero incinta di 12 settimane sono andata a fare l’ecografia programmata. Il dottore mi ha detto che c’era qualcosa che non andava senza specificare cosa fosse. Il giorno successivo mi sono svegliata ed ho notato che il letto era macchiato di sangue. Non ho ricevuto nessuna informazione su perché io abbia avuto un aborto. Le infermiere sono state molto fredde e insensibili, e si sono comportate come se per loro fosse solo routine. Di tutto lo staff dell’ospedale l’unico che ha mostrato un pò di umanità è stato il medico, che più avanti mi ha rassicurato che avrei potuto cercare un’altra gravidanza.”

A seconda delle regole dell’ospedale, il corpo dei bambini può essere trattato come un rifiuto ospedaliero e incenerito. Nel nostro paese le leggi vigenti da quasi quaranta anni offrono a TUTTE le donne la possibilità di scegliere la sepoltura / cremazione, a qualunque età gestazionale. Nessun ospedale può rifiutarsi di rilasciare il corpo del bambino o impedire alla famiglia di provvedere alla sepoltura.

A volte, quando una donna scopre che il suo bambino è morto, le viene chiesto di attendere qualche tempo prima del parto, anche settimane. Sebbene non ci siano motivi di urgenza per affrettare le procedure, questa attesa può spesso essere molto stressante per la donna e il suo compagno.

In Italia, ad oggi (Maggio 2019) non esiste una procedura univoca rispettata da tutti i punti nascita e la gestione dell’aborto, soprattutto di quello del primo trimestre è fortemente legato alle scelte aziendali (aborto farmacologico, aborto chirurgico, attesa).

Anche nei paesi ad alto sviluppo molte donne partoriscono il loro bambino morto nei reparti di ostetricia, circondate da donne con bambini in salute.

Non tutti gli ospedali sono aggiornati o erogano servizi integrati. Questa è la realtà dei servizi sanitari sovraccarichi presenti in molti paesi.

Tuttavia, migliorare la sensibilità quando ci si relaziona alle coppie in lutto e rimuovere il tabù e lo stigma intorno alla morte prenatale NON COSTA NIENTE.

Questa richiesta è peraltro presente in molte storie di madri.

Becky, 38, insegnante di scuola primaria, Viet Nam/UK

“Io e mio marito eravamo al settimo cielo quando sono rimasta incinta di due gemelle ed è stato devastante perderne una – il suo nome è Isla – a 34 settimane. Ero terrorizzata di perdere anche l’altra, e ho insistito per stare in ospedale. Il giorno dopo ho partorito con un taglio cesareo le nostre bimbe. Dopotutto l’ospedale è stato di grande sostegno, ci è stata data una camera singola e abbiamo avuto tempo da passare con Isla. Nonostante questo però alcuni dottori hanno manifestato totale mancanza di sensibilità e uno mi ha addirittura chiesto perchè piangessi e mi ha detto di farmi forza”

Gli operatori sanitari possono mostrare sensibilità e empatia, riconoscere come si sentono i genitori, fornire informazioni chiare e comprendere che i genitori possono avere bisogno di un sostegno specifico, sia nel gestire la loro perdita sia nel pensare ad una eventuale futura gravidanza.

Offrire un sostegno basato sul rispetto dei diritti umani, che sia adeguato dal punto di vista socioculturale, rispettoso e dignitoso è un requisito necessario per prendersi cura delle madri e dei neonati tanto quanto le competenze cliniche

Sarah, 40, impiegato statale, Australia

“La morte in utero è così comune in Australia quando succede a te o a qualcuno che conosci. È subito ovunque. La morte in utero colpisce 2000 famiglie in Australia ogni anno. Il numero di morti in utero è rimasto invariato negli ultimi 20 anni e per le donne indigene è addirittura il doppio. Prima che accadesse a me e io diventassi quell’1 su 6 non avevo mai pensato che un bambino potesse morire in utero. Non se ne parla mai. Il medico mi aveva detto del mio aumentato rischio di prolasso del cordone a causa del polidramnios, ma nessuno mi aveva detto che avevo anche un rischio aumentato di morte in utero”.

Messaggi chiave sul supporto alle donne e alle coppie colpite da aborto e morte in utero

1.

Può essere difficile sapere cosa dire quando qualcuno perde un bambino in gravidanza, ma sensibilità ed empatia possono offrire supporto e permettere alle persone di trovare uno spazio per parlare di come si sentono.

Piuttosto che dire “Tutto accade per una ragione, doveva andare così” prova a dire qualcosa tipo: “Sono molto dispiaciuto. Posso solo immaginare quanto sia doloroso”

Piuttosto che dire “Almeno sai che puoi rimanere incinta”, prova semplicemente ad ascoltare. Potresti limitarti a chiedere: “Come ti senti?” “Cosa posso fare?”

Piuttosto che dire “Almeno hai già un altro bambino in salute” magari è meglio dire “Sono profondamente dispiaciuta per la tua perdita”.

2.

L’esperienza di perdere un bambino in gravidanza può essere vissuta in modo diverso dal punto di vista culturale ed antropologico nelle varie parti del mondo, ma lo stigma, la vergogna e la colpa emergono come tema comune a moltissime donne.

3.

Molte donne che perdono un bambino in gravidanza possono sviluppare un disturbo psichico che dura mesi, o anni, anche dopo che sono arrivati altri bambini in buona salute.

Per migliorare gli outcomes relativi alla salute psichica è necessario offrire sostegno fin dal momento della diagnosi di aborto e morte in utero. Non ha alcun senso adottare la politica di “chiudere la stalla quando sono scappati i buoi” aspettando di curare solo poi le donne che, dopo anni, si ammalano di depressione, ansia o qualunque altra patologia. Non dovrebbe essere presa in considerazione la prevenzione terziaria come strategia di prevenzione efficace, visto che ormai questo aspetto è noto nel mondo accademico e nelle più importanti associazioni di pazienti.

4.

Sappiamo come salvare le vite di molti bambini che muoiono in utero, migliorando l’accesso alle cure prenatali (in molti paesi del mondo le donne non vedono un operatore sanitario finchè non sono a gravidanza avanzata), introducendo la continuità di cura ostetrica e l’assistenza sul territorio quando possibile.

5.

Ogni anno 2.6 milioni di bambini nascono morti: molte di queste morti sono evitabili. Un trattamento integrato delle infezioni in gravidanza, il monitoraggio cardiaco del bambino e l’assistenza al travaglio se fossero parte integrante della cura per tutte le madri potrebbero salvare 1.3 milioni di bambini che invece nasceranno morti.

Dobbiamo porre fine a questo inaccettabile stigma intorno alla morte prenatale e alla vergogna che le donne provano dopo la perdita di un bambino.

“La gravidanza deve essere un’esperienza positiva per madri e bambini – quando questo non è possibile, le donne meritano tutto il nostro rispetto, la nostra empatia e il nostro supporto” N. Simelela.

Articolo originale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

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