Il tabù dell’interruzione di gravidanza per patologia materna: una testimonianza.

by Claudia Ravaldi

Migliaia di donne affrontano nelle prime venti settimane di gestazione un’interruzione di gravidanza per motivi di salute preesistenti o per gravi rischi legati alla prosecuzione della gravidanza (come avviene nel caso della gravidanza extrauterina, per esempio).

Queste donne faticano molto a sentirsi portatrici di un lutto perinatale e quindi tendono a non chiedere sostegno, per vari motivi:

il primo motivo è che devono affrontare due lutti traumatici contemporaneamente, uno legato alla loro salute fisica, messa in pericolo o seriamente compromessa dalla gravidanza, l’altro legato alla perdita del bambino desiderato e i due carichi sono spesso estenuanti da gestire;

il secondo motivo è che dopo una diagnosi infausta si è chiamate a scegliere cosa fare, a soppesare rischi e benefici, vantaggi e svantaggi della scelta, (quando si ha il tempo di scegliere e non si deve intervenire d’urgenza): la scelta di interrompere una gravidanza desiderata anche se razionalmente è motivata per indicazioni mediche chiare, non è mai a “cuor leggero”, perché entrano in gioco aspetti psicologici, relazionali, spirituali e molto spesso è il tema della scelta che tiene lontane le donne da un sostegno.

Spesso ci scrivete chiedendo scusa perché ci scrivete, a volte date  per scontato che quello che provate non sia lutto perinatale perché chi sceglie deve soffrire da solo. Ci scrivete con l’idea che saremmo autorizzare a giudicarvi. A creare dei distinguo, tra lutti di serie A e lutti di serie B. Aspettandovi un giudizio, una strigliata, l’ennesimo sopracciglio alzato.

Io vi ringrazio perché ci scrivete, perché leggete i libri, gli articoli, cercate un confronto con le altre donne. Io vi ringrazio perché non date (troppo) spazio al giudizio e alla colpa, che sono i peggiori nemici dell’elaborazione del lutto e cercate di rimettervi in piedi, anche passando dalla nostra community.

Desiderare un bambino e avere una patologia grave non è uno scherzo.

Aspettare un bambino e avere una diagnosi infausta non è un’esperienza di cui si può parlare con competenza, se non la vivi direttamente.

Perché la donna in attesa, dopo quella diagnosi, deve compiere un gesto d’amore per se stessa, al quale, ahimè, non siamo educate, in quanto donne. Un gesto che sembra empio e che può solo essere taciuto, purtroppo, nella maggior parte degli ambienti.

Il gesto di lasciare andare per salvarsi.

Mettersi al di sopra di chi amiamo, per salvarsi.

Questo passaggio non è mai indolore ed è molto miope banalizzarlo ponendo l’enfasi sulla grave malattia, sugli alti rischi o sulla presenza di altri figli da badare. È tutto vero, ma la logica non basta a lenire la ferita fresca del lutto.

Come tutti i passaggi critici, anche questo ha bisogno di mani tese per essere affrontato con meno cicatrici possibili.

Mani tese, pronte ad afferrarti mentre cadi.

Non ci servono spintoni a stare meglio o schiaffi per ricordarci che abbiamo scelto noi di soffrire.

Mani pronte ad accogliere e orecchie pronte ad ascoltare.

Quello serve, nel lungo percorso di ricostruzione di se stesse. Lacrime, sangue, silenzi e riti.

Per non dimenticare niente.

Per rinascere, nonostante tutto.

Grazie a S. per la sua testimonianza preziosa.

“Una madre orbata.

Perché è così che si è.

Orbate di tutto,  orbate da un velo che fa vedere solo vuoti dove gli altri vedono forme intere.

Non ci sono parole o definizioni per questo, forse perché è innaturale, forse perché in quel vuoto si ferma tutto.

Una madre orbata vede ma non vede perché gli occhi sono sempre colmi di lacrime.

Lacrime che non devono cadere perché c’è segreto, paura, tabù.

Quegli occhi vedono rabbia, dolore, impotenza, ingiustizia e si velano anche se sono solo orbi, non ciechi perché nel rimandare giù le lacrime ci sono altri bambini che ti chiamano, che ti tirano, che non ti lasciano spazi per niente, ci sono amici e parenti che non sanno e continuano normalmente.

C’è il lavoro che continua, tutto continua, ma non un pezzo di te.

Un pezzo di te è immobile. È trattenuto da un filo che vola via lontano ma ti tiene con lui. E quel pezzo non torna più, rimane immobile per sempre e non continua, non va avanti.

Tutto il resto va avanti, sei come in balia del tutto, confusa, sballottata, intenta a nascondere ogni cosa, concentrata a fingere il solito o trovare scuse per nascondere.

Perché c’è tanta vergogna anche.

C’è un mettere in discussione se stessi, il tipo di persona che si è diventati.

Ci si odia, ci si sente terribilmente sbagliati. In alcuni casi si ha tanta vergogna e paura da non riuscire a dire nulla neppure a chi ci è passato, ma per altre strade.

Cosi ti senti ancora più colpevole, più giudicato che mai, se dovessi dirlo a qualcuno.

Ti vedi più nero del nero che da quando è successo è il colore che ti ricopre dal bacino in giù. O come il nero che contempli in tutte le notte in cui non dormi e in quei momenti ti concedi un momento per te.

Un momento in cui non sei madre, non sei moglie, sei solo una persona che ha il cuore distrutto e non trova consolazione in niente, che rivive tutte le possibili situazioni, che gira e gira la frittata per vedere se veramente doveva andare cosi.

Un barcamenarsi tra un giusto e sbagliato, una battaglia tra sentimenti e ragione.

Poi suona la sveglia e tutto riparte.

Buttarsi dentro un frullatore, mantenersi calma e continuare nella normalità più totale.

Al primo attimo solitario un cedimento, ma poi autocontrollo e via nel silenzio a continuare il normale ritmo della giornata.  Perché non si parla di queste cose, non si nominano nemmeno e poi infondo te la sei cercata e ti sta bene.

Le frasi di circostanza sono infinite e tutte pugnalate allo stomaco.

Perché per una mamma anche appena fatto il test è già suo figlio. Non sono cellule,  non sono feti non sono un coso…. P

er una mamma è già il suo bambino solo nel momento che scopre che esiste. Non ci sono settimane o mesi che tengano.

Le frasi che si dicono per consolare o per togliersi dall’imbarazzo tenetele pure. Per una mamma esiste solo la parola: è il mio bambino.

Mio.

Era mio.

Era.

Serve solo silenzio e comprensione anche non dire nulla oppure dire un “vieni e raccontami tutto anche se sono tre ore, butta fuori tutto”. Non dite tanto ne farai un altro perché non sono scarpe vecchie da sostituire, è come dire muori tanto di coglioni è pieno il mondo al massimo ne viene fuori un altro.

Inoltre non tutti possono superare quella tempesta con bambini arcobaleno. Per alcuni l’arcobaleno non arriverà mai e dovranno starci tutta la vita con  quella tempesta.

E tutto cambia. Non vorresti neppure esistere dall’ombelico in giù e ti senti pure divisa in quello.

Da una parte sparire dall’altra tornare alla normalità perché hai anche un marito.

A volte lo detesti profondamente a volte se non ci fosse non staresti neppure in piedi, ma quando lo vedi avvicinarsi lo odi perché sembri l’unica a soffrire e che si è fermata.

Che rivive ogni volta quel momento, che abbassa le mutande e c’è sempre sangue. Sangue che da sempre ci sta intorno che gestisce tutta la nostra vita.

Un tabù fatto solo di donne, una cosa tra donne. Sangue che tutto unisce.

Intanto i giorni sul calendario passano, niente si è fermato. Solo il cuore di qualche passo quando ripensa che non hai niente. Ne ricordi ne consolazione. Che un attimo possa fare tanto male, che un test possa trasformarsi in una sentenza e che possa portarsi dietro tante tribolazioni.

Ritualizzi, dai simboli.

Ti senti quasi strega a cercare ogni segno nel mondo. Perchè ormai  non sei più la stessa, ferma a un incrocio e non sai dove andare.”

 

Grazie per avere scritto S. Grazie per avere aperto una mano in direzione della nostra. Ti auguro di trovare la tua strada, attraverso il lutto.

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