Quando un bambino muore durante la gravidanza o dopo la nascita, accanto al dolore della famiglia c’è sempre una presenza: quella delle ostetriche. Professioniste che, abituate ad accogliere la vita, si trovano ad accompagnare la morte, sostenendo i genitori in uno dei momenti più traumatici della loro esistenza.
Questa presenza non è neutra, non è solo tecnica. È fatta di parole cercate con cura, di silenzi rispettosi, di mani che si posano su una spalla, di lacrime trattenute o condivise, di notti insonni a ripensare a quella famiglia, a quel bambino. È fatta di scelte difficili, di protocolli che talvolta stridono con l’umanità, di formazione che manca e di supporto che non c’è.
Una recente ricerca condotta da Caterina Mussoni per la sua tesi di laurea in Ostetricia presso l’Università di Bologna, con la correlazione della Fondazione CiaoLapo, ha esplorato proprio questo ruolo delicato e complesso. Attraverso un focus group che ha coinvolto 11 ostetriche referenti dei reparti del registro Footprint, la ricerca ha dato finalmente voce a chi ogni giorno si trova a camminare sul filo sottile tra professionalità e coinvolgimento emotivo, tra competenza tecnica e presenza umana.
I risultati, che potete approfondire leggendo la tesi completa, ci restituiscono un quadro ricco, complesso e profondamente umano di cosa significhi davvero assistere una famiglia che ha perso un bambino.
Accompagnare nel lutto: molto più di un protocollo
Quando chiediamo alle ostetriche di raccontare come accompagnano i genitori, emerge subito che ogni storia è diversa. Non esistono protocolli che possano contenere la varietà delle reazioni umane di fronte alla perdita: c’è chi vuole vedere subito il proprio bambino e chi rifiuta con forza, chi desidera tenerlo in braccio per ore e chi ha bisogno di tempo per accettare anche solo l’idea dell’incontro.
Le professioniste descrivono un accompagnamento fatto prima di tutto di rispetto per questi tempi così personali.
“È essere noi le prime a portare il gesto d’amore nei confronti di questo bambino, quasi come se questo gesto d’amore fosse veramente un modo per riconoscerlo, per dire che questo bimbo c’è.”
Prendersi cura del bambino morto – lavarlo, vestirlo, accarezzarlo – diventa il primo atto di riconoscimento, il primo messaggio ai genitori che quel bambino, per quanto la sua vita sia stata breve, è esistito ed è degno di amore e dignità. Questo gesto delle ostetriche apre spesso la strada: quando i genitori vedono che il loro bambino viene trattato con delicatezza e rispetto, qualcosa si scioglie, una porta si apre.
Un elemento prezioso emerso dalla ricerca è il cosiddetto “metodo dell’acqua” – una tecnica ancora poco diffusa in Italia ma efficace nel migliorare l’aspetto del neonato attraverso l’immersione in acqua tiepida.
“È stato meraviglioso, perché in realtà sia nella parte della raccolta dei ricordi – che veramente le foto vengono bellissime – sia anche nella parte proprio del rapporto, dell’incontro con i genitori, è cambiato completamente.”
Non si tratta di nascondere la realtà, ma di restituire al bambino un aspetto più sereno che facilita l’incontro sia per i genitori che per le stesse operatrici.
La memory box e la raccolta dei ricordi – le impronte dei piedini, le fotografie, un ciuffo di capelli, il braccialetto dell’ospedale – sono ormai prassi consolidata nei reparti che hanno completato la formazione. Ma dalle testimonianze emerge quanto sia importante il modo in cui questi gesti vengono proposti: mai imposti, sempre offerti con delicatezza, rispettando anche il rifiuto iniziale e lasciando aperta la possibilità di ripensarci. Una professionista racconta di conservare il corpo del bambino in modo che rimanga disponibile per l’incontro anche ore o giorni dopo il parto, rispettando i tempi di elaborazione dei genitori.
Particolarmente toccante è il racconto di un caso in cui il padre era pronto ad incontrare il figlio mentre la madre era ancora nella negazione assoluta. L’ostetrica ha accompagnato il padre, e mentre questi vestiva il bambino, la madre li ha seguiti da lontano, entrando infine nella stanza quando si è sentita pronta. I padri, ci ricorda questa ricerca, vivono un lutto spesso ignorato, con modalità e tempi diversi dalla madre, e meritano attenzione e riconoscimento nel loro percorso.
Un’organizzazione che fa la differenza
L’assistenza di qualità non dipende solo dalle competenze individuali delle ostetriche, ma anche – e forse soprattutto – dall’organizzazione che le sostiene. La ricerca evidenzia alcuni elementi che fanno davvero la differenza.
La continuità assistenziale è uno di questi. Quando la stessa ostetrica (o lo stesso piccolo gruppo di professioniste) accompagna la coppia dalla diagnosi fino al follow-up, si crea un legame di fiducia che facilita tutto il percorso.
“Trovando magari la stessa persona si può mettere da parte tutta quella parte di lavoro che anche banalmente la coppia deve fare sulla fiducia, sul riaprirsi e continuare invece a lavorare sul percorso di elaborazione.”
Non sempre questo è possibile – la mancanza di personale, i turni, l’organizzazione lo impediscono – ma dove viene garantito, i risultati sono evidenti.
Gli spazi dedicati sono un altro elemento cruciale. Significa avere un ambulatorio riservato per la diagnosi, dove i genitori non debbano attendere in sala d’attesa con altre coppie che aspettano un bambino vivo. Significa avere una sala parto un po’ più defilata, più silenziosa, dove i pianti degli altri neonati non arrivino ad aumentare il dolore. Significa avere una stanza di degenza dove la famiglia possa stare insieme, senza limiti di orari, dove possano entrare i nonni, i fratellini, dove il tempo possa fermarsi senza l’ansia delle visite mediche continue.
La personalizzazione dell’assistenza emerge come valore centrale: ogni famiglia ha bisogni diversi, radici culturali diverse, credenze religiose diverse. C’è chi chiede il battesimo in sala parto, chi vuole una benedizione secondo il proprio rito religioso, chi desidera che tutti i parenti vengano a salutare il bambino. Le ostetriche raccontano di essersi “inventate” soluzioni creative quando i protocolli non bastavano: un fotomontaggio per una mamma che desiderava una foto con entrambi i suoi gemelli (uno vivo e uno morto), un incontro in un bar perché i genitori non se la sentivano di tornare in ospedale, l’organizzazione di sale apposite per accogliere grandi gruppi familiari secondo tradizioni culturali specifiche.
Ma l’organizzazione mostra anche le sue crepe. La presenza del caregiver h24, per esempio, è garantita nei casi di lutto ma non regolamentata in modo uniforme. Il follow-up esiste ma è frammentato. E soprattutto, come vedremo, l’organizzazione non prevede quasi mai forme strutturate di supporto per le operatrici stesse.
La formazione come chiave di volta
Se c’è un messaggio che emerge con forza e unanimità dalla ricerca, è questo: la formazione cambia tutto. Le ostetriche che hanno partecipato ai corsi specifici sul lutto perinatale – come il corso Memory Box offerto gratuitamente da CiaoLapo – raccontano di un prima e un dopo nella loro pratica professionale.
“A noi è cambiato tantissimo l’assistenza, anche comunicativa ovviamente, e abbiamo goduto dei frutti da un punto di vista di soddisfazione”, racconta una professionista. La formazione non solo fornisce strumenti tecnici e pratici, ma aiuta a sviluppare quella consapevolezza emotiva necessaria per rimanere presenti senza essere travolti, per essere empatici senza perdere i confini professionali.
Una partecipante racconta come la formazione le abbia insegnato a chiedersi “come sto io?”, a riconoscere quando ha bisogno di fare un passo indietro, quando l’emotività personale rischia di condizionare negativamente l’assistenza. Un’altra descrive come, dopo la formazione, il team abbia sentito la curiosità di dedicarsi anche ai bambini più piccoli, quelli delle epoche gestazionali più precoci, rispetto ai quali prima si sentivano meno competenti.
Ma la formazione rimane disomogenea. Se le ostetriche dei reparti Footprint sono tutte formate (è un requisito per l’iscrizione al registro), lo stesso non vale per l’intera équipe multidisciplinare. I medici ginecologi, in particolare, non sempre partecipano a percorsi formativi specifici sul lutto perinatale, e questo crea quella discontinuità comunicativa e assistenziale di cui abbiamo parlato.
Le professioniste chiedono quindi una formazione continua, multidisciplinare, che coinvolga tutte le figure che ruotano attorno alla coppia in lutto. Perché l’assistenza di qualità si costruisce insieme, nell’omogeneità degli approcci, nella coerenza dei messaggi, nella condivisione di una cultura del rispetto e dell’empatia.
Cosa ci dice questa ricerca
I risultati di questo studio ci restituiscono un quadro complesso ma chiaro. L’assistenza al lutto perinatale non è “solo” un atto clinico da inserire nei protocolli. È un processo relazionale profondo, che tocca le corde più intime dell’umano – la vita, la morte, la genitorialità, il dolore, la speranza.
Le ostetriche che accompagnano le famiglie in questi momenti portano nel loro lavoro non solo competenza tecnica ma anche il loro cuore, la loro umanità, la loro vulnerabilità. E lo fanno spesso senza il supporto organizzativo, psicologico e formativo che sarebbe necessario.
Eppure, nonostante le difficoltà, le lacune, il peso emotivo, queste professioniste continuano a “stare”, a “esserci”, a cercare le parole giuste o i silenzi rispettosi, a prendersi cura dei bambini morti con lo stesso amore con cui accudirebbero quelli vivi, a sostenere i genitori nel riconoscimento della loro perdita e della loro genitorialità.
La ricerca ci dice che serve fare di più:
- Formazione continua e multidisciplinare, che coinvolga tutta l’équipe e non solo le ostetriche, con particolare attenzione alla comunicazione efficace e alle competenze relazionali.
- Supporto psicologico strutturato per gli operatori, con percorsi di debriefing, supervisione e sostegno che prevengano il burnout e permettano di elaborare il carico emotivo.
- Riconoscimento istituzionale della morte perinatale come parte integrante della pratica ostetrica, con risorse dedicate, tempo protetto, spazi adeguati.
- Organizzazione assistenziale che favorisca la continuità, la personalizzazione, la presenza di spazi dedicati e di percorsi chiari e condivisi.
- Ricerca continua per monitorare le pratiche, valutare l’efficacia degli interventi, dare voce a chi vive queste esperienze – famiglie e operatori.
Per saperne di più
Questa ricerca rappresenta un contributo importante alla letteratura italiana sul lutto perinatale e offre spunti concreti per migliorare l’assistenza. Se volete approfondire i risultati, la metodologia, le testimonianze complete delle ostetriche, potete leggere la tesi integrale qui.
Ringraziamo la neo-ostetrica Caterina Mussoni per aver dato voce a chi quotidianamente si prende cura delle famiglie che vivono la perdita più difficile, e per aver contribuito con il suo lavoro a costruire una cultura dell’assistenza più consapevole, più umana, più giusta.
Per informazioni sulla formazione per operatori sanitari sul lutto perinatale, visita la sezione dedicata del nostro sito. Per il supporto alle famiglie che hanno vissuto una perdita, chiama il numero verde 800 601660 o contattaci a primosostegno@ciaolapo.it.

