Favola sul fondo del fiume

by Claudia Ravaldi

 

 Quella mattina non era mattina. E non era nemmeno pomeriggio. Era quell’ora storta quando una mattina d’estate assomiglia a un pomeriggio di inverno. L’Omino col cilindro aveva preparato l’attrezzatura per immergersi nel Grande Fiume.

L’Omino col cilindro si chiamava così perché era solito andare in giro con un cilindro in testa, per l’appunto, e viveva con la Donna dalle lunghe gonne, che si chiamava così perché portava sempre un vestito formato da tante gonne sovrapposte, una sull’altra. Vivevano da circa un mese nella loro casa sulla punta della lingua di terra dove il Grande Fiume incontrava il Fiume Azzurro e insieme correvano fino al mare per la via più lunga.

  E da circa un mese l’Omino utilizzava quella straordinaria tecnica di immersione. Non ne sapeva niente prima che il barcaiolo gliela consigliasse per combattere la malinconia. Era una specie di cura, insomma, pratica ed economica, giacché non prevedeva altro che l’uso di un ombrello speciale. Grazie a quell’attrezzo, infatti, l’Omino era in grado di immergersi nelle acque del fiume e uscirne completamente asciutto. 

  «Vai, vai a riflettere sul fondo del fiume», gli aveva detto il barcaiolo, mentre, con gli ultimi strattoni di fune, attraccava la zattera all’argine.

  «Vedrai che là in fondo tutto ti sembrerà più chiaro.»

  Il barcaiolo era così: anni di onesta professione, di passaggi da una sponda all’altra, di agguati pirateschi, di burrasche sul fiume, di attraversate notturne, animali, persone e i primi mezzi a motore. Ne aveva di familiarità con qualunque situazione e anche di capacità di cogliere al volo l’animo delle persone.

  L’aveva visto subito che quei due nuovi, erano mica due arzadù qualunque. Avevano qualcosa che non andava. Non erano degli strani: troppo facile. Gli eccentrici, diceva, erano gente che si vedevano così: non c’era bisogno di capirli, bastava guardarli. No, quei due avevano una piega alla bocca voltata verso il basso e due rughe sotto gli occhi, di chi li ha spremuti ogni notte per fare uscire tutte le lacrime che una persona può produrre. Era una roba profonda, aveva intuito: un dolore speciale che soltanto chi ha perduto qualcuno di tanto atteso sapeva provare. Non c’era da andarci leggeri, con i nuovi arrivati.

  «Domani è il compleanno della Donna dalle lunghe gonne», gli aveva detto l’Omino dalla cima dell’argine, prima di avviarsi sulla spiaggia, quella mattina che non era mattina. Il barcaiolo seppe che tutti i pensieri dell’Omino erano per lei, ma non disse nulla: ci sono cose che ciascuno si deve vedere da sé, pensava. Occhei, lui era il barcaiolo sul Grande Fiume e per mestiere ne aveva sentite tante, sapeva tanto dei tanti che andavano da lui per l’attraversata. Tanti che durante la navigazione parlavano e parlavano, ma il suo ruolo arrivava fino a un certo punto, fino a quel palo di legno marcio piantato a pochi centimetri dalla sponda e, da quel punto, ciascuno doveva vedersela da sé.

  Sapeva anche, il barcaiolo, che per risolvere certe faccende bastava la distanza orizzontale di un’attraversata, ma quando quello non funzionava bisognava cambiare strategia.

  «Quello che non si può risolvere in superficie, bisogna risolverlo in profondità», era solito dire.

  In fondo, in fondo al fiume: se l’Omino ci andava con la giusta predisposizione, avrebbe di certo trovato qualcosa che potesse aiutarlo.

  Era l’unico consiglio che poteva dare: inutile insistere. Lo lasciò andare senza aggiungere altro.

 

  Con l’ombrello da immersione, l’Omino si calava nella profondità del fiume e, mano a mano che calava, il sole del pomeriggio che pomeriggio non era, diventava una moneta più sfocata e fredda e i raggi che fuori cadevano dritti si disperdevano in ghirigori nell’acqua.

  In poco tempo il buio aveva avvolto ogni cosa là sotto e l’Omino non poté distinguere molto altro. Con le orecchie, però, distinse la voce del polpo pirata. Ora affittava sdraio e ombrelloni sul fondo del fiume, ma prima era il temibile pirata, di quelli che facevano paura, con tanto di uncino, tentacolo di legno, tatuaggio con il teschio e pistola a tromba. Un polpo in fondo al fiume: che roba era? Era stato un polpo di mare, naturalmente, ma durante l’ultimo assalto a un bastimento spagnolo, l’albero della sua corvetta era venuto giù sotto i colpi più efficaci di quelli che nelle sue intenzioni dovevano soccombere. Il legno lo colpì in testa e il fazzoletto che portava sulla testa non serviva più solo a completare il look da pirata.

  «Eh, era un periodo schifo», raccontava spesso. «Si facevano pochi dobloni, ma soprattutto mancava il rispetto. Da quando hanno inventato quegli affari lì, i motori, le cose sono sempre andate peggio. Con la vela c’era più onestà: se sapevi governare le vele e tenere la nave leggera, eri un pirata come si comanda. Con i motori, invece: chiunque riuscirebbe a scappare! Io con la vela, loro col motore: son rimasto qua. Si sta bene. Mi sono riciclato, ho avviato questa attività. Non va mica male. Solo gli ombrelloni si affittano poco, nell’oscurità».

  Anche un gruppetto di anziane sirene di mare si erano trasferite a vivere al buio nelle acque del fiume: era meglio per la pelle. L’assenza di sole donava alla pelle l’affascinante pallore e l’acqua senza sale preveniva le rughe.

  Qualche metro più in basso, due granchi di fiume lamentavano l’ingiustizia delle nuove regole di navigazione che limitavano lo spostamento laterale, privilegiando quello in avanti. Di quel passo, chissà dove sarebbero andati a finire.

  L’Omino, triste e pensoso, andò a sistemarsi al fresco, in un angolo tra un sasso e una pianta di fiume che muoveva i rami alla corrente.

  «Questo cassis non è fatto come si deve», disse qualcuno. Un modo come un altro per attaccare  bottone. L’Omino non rispose, impegnato a seguire i suoi  pensieri.

  «Questo cassis non è fatto a dovere», ripeté a voce alta, per farsi sentire. «Dev’essere per via dell’acqua».

  L’Omino guardò dapprima davanti a sé, ma non distinse nulla. Guardò meglio nell’abisso fluviale e vide un bagliore rosso accendersi, diventare più intenso e infine smorzarsi e scomparire.

  «Dicevo» insisté la voce, «che questo cass…»

  «Ho capito!», ribatté spazientito l’Omino. «Sono temporaneamente cieco, ma sentire ci sento bene: sono mica sordo».

  «Che carattere!», disse la voce. «Hai per caso qualcosa da sgranocchiare?»

  La situazione distolse l’Omino da tutti i suoi pensieri. Si fece più vicino, sebbene non avesse nulla nelle tasche da poter offrire. Distinse però nell’oscurità, che s’era fatta più trasparente, un tavolo, una candela dentro a un bicchiere di cognac e una brace accesa all’altezza del naso.

  «Qualunque sia la cosa che ti dà tanto pensiero», disse la brace «non c’è niente che non possa essere risolto con un buon bicchiere di cassis… o qualcosa da mangiare», soggiunse: il tizio non aveva ancora risposto alla domanda sul cibo. Forse non aveva sentito o forse faceva finta di niente.

  «No, non credo che questo sia il caso.»

  «Diamine, che umore nero. Cosa ti succede?»

  L’Omino era un tipo né troppo espansivo né troppo diffidente: faceva il suo verso, disposizione di carattere che si era acuita nell’ultimo mese. Pochi entusiasmi, in genere, e un’accentuata tentazione alla chiusura. Eppure, quella volta, l’impulso a parlare fu più forte e l’Omino attaccò, forse rassicurato dal trovarsi davanti uno sconosciuto:

  «Domani è il compleanno della Donna dalle lunghe gonne. È stato un periodo davvero brutto. Prima abbiamo cambiato fiume, poi… poi aspettavamo l’arrivo di una pulce. Era una bella pulce, minuta e tenace, tanto che avevamo deciso di chiamarla La Pulce. Insomma, dapprima si era annunciata all’improvviso e noi per un po’ non sapevamo bene come fare. Però più il tempo passava e più ci affezionavamo e abbiamo desiderato tanto che arrivasse. Abbiamo corso di qua e di là perché avesse il trattamento migliore. L’abbiamo portata al mare, le abbiamo letto favole e le abbiamo anche fatto ballare i valzer jazz. Un giorno, all’improvviso, La Pulce ha annunciato che non sarebbe più venuta. Forse avevamo sbagliato da qualche parte, forse aveva pensato che non sarebbe stata bene con noi. Ora io e la Donna dalle lunghe gonne rimaniamo molte ore a guardarci, senza riuscire a dirci una parola: non riusciamo più a parlare e spesso ci si inumidiscono gli occhi. Come vedi, la malinconia ancora non ci abbandona.»

  Lo sconosciuto concluse che fosse meglio lasciare da parte per un attimo l’argomento cibo.

  «Siamo stati tutti delle pulci», sospirò. «Lo sei stato tu; lo sono stato anch’io, seppure diverso da te. Non devi prendertela con La Pulce. Tu forse non puoi ricordare, ma io ricordo tutti i pericoli passati, le mille difficoltà, gli ostacoli. È una straordinaria e meravigliosa combinazione di milioni di fattori a far sì che possa nascere una nuova pulce. Devono combaciare tutti, ma basta che ne vada storto uno soltanto perché le cose diventino molto complicate e tristi. È una strada lunga e piena di pericoli.»

  «Stai fraintendendo», lo interruppe l’Omino. «Questa piega della bocca e la ruga sotto gli occhi non sono espressione di chi ha qualcosa da rimproverare. Il nostro è un grande dispiacere che si rinnova a ogni triste anniversario e forse non si risolverà mai. Poi la Donna dalle lunghe gonne è triste e questo non mi va. Io ho cercato di mantenere il mio tempo il più intenso che ho potuto: molte sere ero fuori di casa, ma sempre mi accompagnava il dispiacere di sapere la Donna dalle lunghe gonne a casa, sola, con la sua tristezza. Quando tornavo a casa, lungo l’argine, fra i campi di pannocchie, ho regalato perle alla luna, mentre saliva dalle colline.»

  Si fermò. All’Omino parve che lo sconosciuto stesse annusando qualcosa, ma non ci badò troppo e riprese.

  «Uno si crede uomo, con tutta la sua età e la sua esperienza. Poi arriva una pulce, un affarino con un’età che nemmeno si riesce a contare, che mette insieme tanta esperienza da fare impallidire l’uomo. Mi ha insegnato molte cose, La Pulce: gliene sarò sempre grato.»

  Pensava di aver detto tutto.

  « Domani è il compleanno della Donna dalle lunghe gonne», riprese.

  «Sì, questo lo hai già detto», fece l’altro.

  «Che carattere!»

  L’Omino si fece più sotto: voleva vederlo in faccia, quello sconosciuto che gli aveva sturato l’animo. Le narici pizzicavano all’odore di tabacco bruciato più intenso e finalmente vide fumo che saliva imprigionato in bolle d’ossigeno che esplodevano appena prima di raggiungere la superficie.

  Forse fu a causa una corrente troppo forte che la fiamma della candela dentro al bicchiere divenne più intensa e il bagliore si allargò oltre il limite di sicurezza a cui si era sistemato lo sconosciuto per non essere visto.

  Non si può nemmeno descrivere la sorpresa che provò l’Omino quando vide comparire davanti ai suoi occhi i primi, confusi tratti dello sconosciuto. Che? Checos? Che razza di roba era quella?

  Visto che il danno era ormai fatto, pensò lo sconosciuto, tanto valeva. Avvicinò il viso alla candela. L’omino vide dapprima sbucare un naso nero e umido: era come una T dentro a una V, con due buchi che si chiudevano senza ritmo e non stavano mai fermi. Poi comparvero tanti baffi neri e ispidi. Lo sconosciuto ebbe l’accortezza di avvicinarsi alla candela quel tanto da riuscire a farsi vedere, senza bruciarseli.

  Un cane?, pensò l’Omino.

  «Chi sei?», chiese allarmato.

  Comparvero sul tavolo le zampe nere. L’omino non aveva mai visto un cane seduto sul sedere come una persona nel fondo di un fiume a bere cassis e fumare Fortuna come un detective della Continental Detective Agency, ma il cane era perfettamente a suo agio, sebbene lamentasse già da un po’ l’assenza di qualcosa da mettere sotto i denti.

  «Io sono La Puzza», disse. «E vedo che qui c’è bisogno di me. Verrò con te dalla Donna dalle lunghe gonne. A più di un patto però.»

  L’Omino era rimasto con la bocca aperta per lo stupore. La richiuse non appena si riprese dalla shock ed ebbe sentito il sapore limaccioso dell’acqua del fiume.

  «Non sono e non vorrò essere quello che sostituirà ciò che avete perduto. Non sono uguale a voi, ma so fin troppo bene che queste faccende non si risolvono con un sostituto di qualsiasi genere. Però so che potrei aiutare la Donna dalle lunghe gonne a diventare più serena.»

  L’Omino non aveva parole. Poi si decise:

  «Due pasti al giorno possono andare bene?»

  «Garantiti?»

  «Garantiti.»

  «E almeno una passeggiata al giorno.»

  «D’accordo», concluse l’Omino.

  Lasciarono il tavolo e risalirono in superficie. Il sole era diventato rosso e stava calando dietro le montagne. Camminarono lungo la riva fino al punto in cui si gettava nel fiume incontrandosi con la sponda del Fiume Azzurro. Là c’era la casa e la Donna dalle lunghe gonne seduta sotto al portico. Cos’era quella cosa che correva accanto all’Omino? La Donna dalle lunghe gonne si asciugò le lacrime per guardare meglio. L’Omino la vide e si salutarono. Il cane le corse incontro e pretese subito di giocare.

  «Chi è?», chiese la Donna dalle lunghe gonne all’Omino, quando questi l’ebbe raggiunta.

  «Io sono La Puzza», rispose il cane. «E ho fame».

 

 Federico Manicone

per Le parole dell’Amore, concorso letterario permanente CiaoLapo Onlus, 2011

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