Il mondo sommerso.

by Claudia Ravaldi
Magritte

Magritte

Dal 2007 mi occupo attivamente di relazione d’aiuto e di automutuoaiuto, sia in gruppi online che in gruppi de visu, in cui viene offerto supporto alle persone colpite da lutto perinatale o agli operatori dell’area materno infantile coinvolti nell’assistenza.

“La metacognizione indica un tipo di autoriflessività sul fenomeno cognitivo, attuabile grazie alla possibilità di distanziarsi, auto-osservare e riflettere sui propri stati mentali.”
Experience is, for me, the highest authority. The touchstone of validity is my own experience. No other person’s ideas, and none of my own ideas, are as authoritative as my experience. It is to experience that I must return again and again, to discover a closer approximation to truth as it is in the process of becoming in me. Neither the Bible nor the prophets — neither Freud nor research – neither the revelations of God nor man – can take precedence over my own direct experience.
Carl Rogers

Condizionamenti e pregiudizi che ostacolano  la relazione d’aiuto e il facilitatore

La mia formazione come psicoterapeuta già in precedenza interessata alle situazioni di trauma acuto, di crisi e di promozione della resilienza mi ha permesso di avvicinarmi al mondo dell’automutuoaiuto e della facilitazione con un bagaglio certamente molto ingombrante e ricco di strumenti: a volte poco appropriati, perché troppo clinici, a volte estremamente utili e persino necessari nel contesto relazionale d’aiuto.

Nel lungo percorso di formazione, come autodidatta prima e come discente poi a vari corsi e congressi sull’automutuoaiuto ho potuto utilizzare in particolare due strumenti che come psicoterapeuta possedevo già prima: la capacità di ascoltare, l’altro e contemporaneamente me stessa e ciò che nasce in me dalle parole e dai gesti altrui, e quella di osservare in modo attento le dinamiche relazionali e il funzionamento delle relazioni nell’ambito di un colloquio vis a vis e di un gruppo di automutuoaiuto, sia tra facilitatore e utente che tra facilitatore e gruppo.

La possibilità di osservare il divenire relazionale all’interno di uno spazio privilegiato e protetto come quello di un gruppo di automutuoaiuto per persone in lutto e quella di poter riflettere in modo non giudicante e non stereotipato sulle dinamiche che si presentavano di volta in volta ai miei occhi sono state negli anni un grande vantaggio: monitorare la relazione tra due individui, o tra un individuo e un gruppo, e vedere l’impatto della comunicazione, verbale e non verbale sulle relazioni, a breve a medio e a lungo termine mi ha permesso di strutturare un’idea molto precisa di quelle che sono le trappole in cui cadono i facilitatori e i cofacilitatori, a volte spinti inconsapevolmente dagli stessi utenti del gruppo, spesso in totale autonomia.

 

Chi rischia di cadere nella trappola?

Non esiste facilitatore (come non esiste terapeuta) immune dall’errore.

Lungi dal passare il messaggio di una presunta infallibilità del facilitatore, vorrei sottolineare invece l’importanza di un facilitatore competente rispetto a se stesso e al suo funzionamento psico-emotivo (cosa penso, come mi sento, come agisco), al suo percorso di dolente prima, di facilitatore poi, al suo ruolo nel gruppo e alle sue trappole personali, spesso preesistenti al lutto e alla facilitazione del gruppo.

Il facilitatore ha tra i suoi pochi doveri quello di essere consapevole di dove si trova nel suo percorso di lutto, quello di capire come funziona dal punto di vista relazionale, e in fattispecie nella relazione d’aiuto, e quello di capire perché desidera facilitare e quale è il suo progetto per il gruppo.

Si tende a promuovere l’idea che il controllo totale delle dinamiche del gruppo impedisca al facilitatore di sbagliare, dimenticando che ogni gruppo ha una dinamica e una storia a sé, perché composto da persone diverse in momenti diversi delle loro esistenze; si crede anche che il facilitatore – leader, dotato di grande carisma o di grandi doti persuasive sia garanzia di funzionamento del gruppo, così come si tende a pensare che il vero facilitatore è colui che, tenendosi a debita distanza offre consigli e riflessioni ai partecipanti, senza essere coinvolto dalle storie, dall’alto di una dimensione ideale raggiunta dopo la “gavetta” nel gruppo.

Intorno alla figura del facilitatore, come è facile notare, sono nate molte teorie naif, nessuna delle quali, tuttavia, protegge il facilitatore dalle sue trappole e protegge il gruppo dall’implosione.

Per evitare di cadere nelle trappole, bisogna innanzitutto imparare a riconoscerle anche da lontano, e poi, eventualmente saperci cadere “con stile”, mantenendo un approccio aperto, vigile e consapevole al problema, alle sue origini e anche alle possibili soluzioni.

Ho notato durante questi anni che il rischio di cadere nelle trappole è più alto per i facilitatori con insufficiente preparazione sulle dinamiche relazionali e sulla comunicazione, con scarsa empatia e /o con profondi e radicati pregiudizi sulla vita, i valori, il lutto, su ciò che è giusto e ciò che non lo è. In generale, una persona troppo rigida con se stessa o con gli altri, o tendente alla “simpatia” non riescono a mantenere una visione meta-cognitiva del gruppo e dell’utente, perché offuscati dalle loro credenze / valori e/o dalle loro emozioni personali.

Un altro gruppo a rischio sono coloro che non partecipano a buone intervisioni o supervisioni di gruppo: queste persone, spesso operatori della salute con poca o nulla formazione sui temi sopraelencati, o neofacilitatori con un recente passato da utenti del gruppo, sono più frequentemente di altre vittima di grossolani condizionamenti.

Molti di loro, soprattutto, esercitano la facilitazione dall’interno di una sovrastruttura cognitiva molto solida, rigida e in quanto tale distanziante. Le sovrastrutture più ingombranti sono quella dell’ “operatore”, che non toglie i panni da curante nemmeno quando indossa le vesti del facilitatore, e del “sopravvissuto al lutto”, che ritiene di avere una posizione esperienziale privilegiata rispetto a chi si trova in quel momento nelle spire della condizione luttuosa e assume il ruolo di conduttore/ nocchiero dantesco più che di facilitatore.

 

Come posso individuare le mie trappole?

Possiamo accorgerci dei condizionamenti che rendono difficile la nostra posizione di facilitatore di GAMA iniziando col chiederci perché abbiamo scelto di intraprendere il percorso di formazione e poi facilitare un gruppo.

 

Facilito perché voglio rendere ciò che mi è stato dato dal gruppo”, “Facilito perché nel mio territorio c’è bisogno e non lo fa nessuno”, sono due motivazioni sicuramente nobili che di per sé però non rappresentano il nucleo di un progetto sufficientemente articolato e sostenibile nel lungo periodo come dovrebbe essere pensato un GAMA (che può essere aperto o chiuso a durata limitata o meno, ma prevede comunque una continuità di incontri con persone alle prese con la loro elaborazione del lutto).

Il progetto gruppo di automutuoaiuto per persone in lutto è un progetto ambizioso: accoglie persone colpite da un lutto e desiderose di prendersi cura del loro dolore e trasformarlo in qualcosa di diverso, più tollerabile, meno impetuoso, più vitale; spesso chi chiede di partecipare a un gruppo AMA è nella fase peggiore del lutto, quella della vivida impotenza: sta subendo gli effetti della perdita, e rischia di perdersi nei meandri del lutto, desidera andare avanti, ma non sa dove andare, in gioco ci sono la sua identità di prima e la ricostruzione di un’identità che sarà. E’ comprensibile che queste persone abbiano bisogno di ascolto, ma l’ascolto può non essere sufficiente di per sè se queste persone non sono attivamente aiutate a dipanare le loro matasse interiori. Un buon gruppo AMA è tale quando sono gli utenti stessi a dipanare l’uno le matasse dell’altro: spesso i gruppi AMA molto giovani o molto vecchi, entrano in empasse per l’oggettiva difficoltà nel “dipanare le matasse” degli utenti. In questi casi il ruolo del facilitatore è dirimente, perché attraverso il costante monitoraggio del gruppo e dei suoi movimenti può aiutare il gruppo a “rivedersi” nelle sue parole e dunque a pro-muovere un cambiamento.

Tuttavia, dipanare può non essere sufficiente se chi dipana (in questo caso il facilitatore, direi in modo più esteso il gruppo ben facilitato) non sa maneggiare il filo, tira troppo (facilitatore conduttore/ consigliere), o troppo poco (facilitatore fantasma), lascia che il filo si ammucchi in disordine (facilitatore delegante) e lascia che si formino i nodi (facilitatore indifferente). Per dipanare occorre qualcosa di più che un ascolto gentile, qualche sedia in cerchio e un gruppo di pari: occorre che il gruppo di automutuoaiuto sia percepito come uno spazio in movimento, dall’abisso alla terraferma, occorre provare ad arrivarci, alla terraferma, avere chiaro se l’equipaggio viaggia tutto nella stessa direzione, se pur con energia e forza e strumenti differenti.

Il monitoraggio del gruppo e dei suoi movimenti è competenza del facilitatore e del cofacilitatore, che durante gli incontri dovrebbero poter fare questo e poco altro. Un buon monitoraggio è quello che permette ai facilitatori, durante lo spazio di un incontro o in incontri successivi, di riprendere spunti da quanto osservato e riproporli come tentativo di attenzione condivisa e di “riallineamento” dei partecipanti al senso del gruppo e al suo percorso.

Un facilitatore iperresponsabilizzato dal ruolo di “curante” (nel mio gruppo entro il quarto/quinto incontro tutti stanno meglio) o “sulla difensiva” rispetto alle emozioni difficili (nel mio gruppo le persone che piangono imparano ad autoilimitarsi e a reagire) non riesce a monitorare la situazione con sufficiente consapevolezza, perché troppo concentrato su quella che secondo lui dovrebbe essere la strada del gruppo, la reazione dell’equipaggio, la destinazione finale, la vita stessa (che ci viene a fare al gruppo che non cambia nulla?).

Ogni gruppo è un gruppo a se stante, impossibile avere due gruppi uguali con dinamiche sovrapponibili. Il ruolo del facilitatore, di volta in volta, è quello di sintonizzarsi sulle caratteristiche, le dinamiche e i bisogni di quello specifico gruppo, condividendo con il gruppo, il progetto e le responsabilità per realizzarlo: il gruppo vive non grazie al facilitatore, ma attraverso la capacità del facilitatore di cogliere gli spunti, evolutivi o critici che siano, e rimandarli al gruppo, con viva curiosità e intenzione. Pensarsi “esperto” e seguire uno schema stereotipato di “gruppo AMA”, lontano dall’esperienza soggettiva di quel gruppo e di quegli utenti, è un’altra trappola del facilitatore.

Facilito perché ho capito come si elabora il lutto e voglio aiutare gli altri”: anche in questo caso lo scopo è nobile, ma la strada lastricata di insidie: come sostiene Rogers, e altri con lui, non ci sono due esperienze uguali e sovrapponibili, identiche ed esattamente riproducibili (il tipo di lutto può essere simile, ma non le reazioni ad esso). Lo stesso vale per il processo di elaborazione del lutto, che non può dirsi uguale per due individui, anche quando i due individui piangono lo stesso congiunto.

Facilito perché c’era bisogno di un facilitatore e mi hanno detto che sono portato”: questo tipo di facilitatori, investiti di un ruolo che sarebbe più vicino alla conduzione che non alla facilitazione in quanto tale, si trovano spesso, a loro insaputa, coinvolti in dinamiche relazionali di dipendenza o di abbandono, che tutto possono fuorchè risultare facilitanti.

Ho aperto questo gruppo perché solo noi possiamo capirci e aiutarci tra noi

E’ trappola tipica dei gruppi web, ed è esplosa negli ultimi tre-quattro anni con la diffusione dei social network la suggestiva tentazione di “bruciare le tappe”: il lutto è scomodo, per chi lo vive e per chi è chiamato a offrire sostegno. Stare nel proprio lutto richiede una forma di resistenza e di disponibilità culturalmente fuori dal comune, e spesso per il dolente il passaggio a “helper o facilitatore” rappresenta idealmente l’agognato punto di arrivo dell’elaborazione. A volte, la fretta di arrivare è talmente bruciante che si arriva ad autoconvincerci che “il più è stato fatto”; e che questo sia sufficiente a facilitare altri dolenti. La tentazione di vivere il lutto velocemente, obbedendo al dogma sociale, o più semplicemente impegnando il tempo aspettando che passi, da solo, come da sole passano le stagioni, che noi lo vogliamo, oppure no, riduce l’automutuoaiuto a mero gruppo di sfogo in cui è solitamente presente un leader/conduttore/amministratore di gruppo autoproclamatosi tale allo scopo di “aiutare gli altri”, pur avendo esso stesso bisogno di essere per primo aiutato e protetto dalle trappole intrinseche alla facilitazione.

Un’altra trappola da tenere presente è quella che chiamo “effetto Lavanderie Jefferson” (I Jefferson sono una vecchia sit com americana il protagonista della quale si vantava per essere riuscito ad aprire ben sette lavanderie nello stesso distretto, “sempre una vicino a te”). Questa trappola non sembra tale (anzi, inizialmente sembra un indicatore di successo!) finchè i gruppi non cominciano ad implodere, a chiudere, ad avere effetti sui partecipanti ben lontani dal progetto dell’automutuoaiuto per il lutto. Aprire più gruppi possibili, accogliere più persone possibili, promuovere la cultura del GAMA il più possibile e con ogni mezzo spesso non è finalizzato ad offrire un gruppo di buona qualità e dal progetto solido e rodato, ma per l’appunto a colmare dei vuoti territoriali; ciò porta alla fioritura di moltissimi gruppi, almeno sulla carta, accomunati dall’accoglienza alle persone in lutto, ma distinti da progetti completamente diversi, e spesso antitetici l’un l’altro. L’apertura di un nuovo gruppo AMA in un nuovo territorio deve essere ecosostenibile: il territorio deve effettivamente essere scoperto da un servizio di quel tipo, ci deve essere una rete intorno che si attivi per la nascita del gruppo e creda nel beneficio del gruppo, così da promuoverlo presso gli utenti, ci devono essere due facilitatori (o un facilitatore e un cofacilitatore) d’esperienza, formati, e in grado di fare un buon monitoraggio del territorio e dei partecipanti.

Aprire (e poi facilitare) un gruppo AMA significa esporsi al dolore altrui, che riattiva dolori personali, anche molto diversi e/o antichi, e stimola numerose riflessioni e numerose emozioni; aprire un gruppo spinti dal “bisogno” di una struttura, senza avere ben chiaro a livello di esperienza personale il significato del percorso di lutto o la varietà di percorsi possibili è indubbiamente una grande trappola.

Nessuno dovrebbe mai spingere una persona, operatore o ex utente che sia, in una trappola così profonda e contorta come questa. Il nostro modello di gruppo, rodato in questi otto anni di esperienza di formazione, di aperture su diverse aree geografiche italiane di lunghe progettazioni con facilitatori e istituzioni ci porta a dire che è meglio avere un gruppo in meno che molti gruppi autogestiti da persone poco consapevoli.

Facilito perché volevo fare un po’ di volontariato, e ho scelto di fare questo” tra tutte, questa è la cognizione forse più pericolosa perché più lontana dal progetto “automutuoaiuto”: posto che il facilitatore è un ruolo che per definizione storica non riceve retribuzione, ugualmente non è un ruolo “neutro”, né per chi lo fa né per chi lo “subisce”, perché mette in connessione profonda le persone e le loro parti più dolorose e più esposte. Questo tipo di volontariato non ci chiede dunque di investire solo “del tempo” o “un po’ di denaro personale”: ci chiede di investire le nostre risorse per donarle ad altre persone, e al contempo facilitare coi giusti tempi e modi un cambiamento del gruppo e nel gruppo. Il facilitatore che desidera donare il suo tempo e la sua esperienza agli altri, desidera anche essere parte dell’esperienza altrui, desidera farlo inoltre per se stesso. E’ molto importante che i facilitatori riflettano su cosa li porta a scegliere questo compito, quale è lo scopo e quali sono gli aspetti critici. Organizzare una cena di beneficienza non ha lo stesso impegno dal punto di vista delle risorse emotive della facilitazione di un gruppo di automutuoaiuto per il lutto, e i facilitatori dovrebbero potersi misurare sul campo, come cofacilitatori, per un periodo di tempo sufficientemente lungo prima di scegliere di aprire un loro gruppo personale.

 

Conclusioni

Le ragioni per cui una relazione d’aiuto può ammalarsi e un facilitatore cadere in trappola sono dunque molteplici. Il rischio, per il facilitatore, è quello di venire meno al suo ruolo, finendo per vivere il gruppo come una zavorra insostenibile e gli utenti come “nemici” o “ostacoli” al buon svolgimento del gruppo.

L’automutuoaiuto, che è un prezioso strumento per promuovere resilienza e benessere negli utenti, è ancora un concetto di nicchia: in pochi ne conoscono l’effettiva funzione, non c’è un accordo unanime su quale sia il progetto che sottostà ad un gruppo, spesso se ne aprono più di quanti se ne possano correttamente sostenere, e spesso la tempistica di ingaggio degli utenti è molto frettolosa e poco pensata. Il gruppo è vissuto da molti come una risposta immediata a un bisogno urgente: sono una realtà nota e spesso promossa attivamente dal territorio là dove manchino o siano insufficienti altri tipi di servizi territoriali (nel nostro caso, consultoriali o ambulatoriali per il sostegno al lutto perinatale).

Si ritiene, erroneamente, che per cimentarsi in una relazione d’aiuto sia sufficiente la volontà di aiutare il prossimo.

Si ritiene che apprese alcune semplici nozioni sugli aspetti teorici della relazione d’aiuto esse siano di per se sufficienti a cimentarsi nella relazione d’aiuto.

Si ritiene, fondamentalmente, che la relazione d’aiuto non possa che andare bene e con successo, essendo basata sulla magnanima volontarietà del facilitatore che regala il suo tempo agli altri.

Ogni facilitatore dovrebbe ritenersi tale solo dopo avere definito le sue competenze, l’aderenza al progetto GAMA e dopo un sufficiente periodo di cofacilitazione.

La fretta non è una buona consigliera; non lo è per l’elaborazione personale del lutto, non lo è quando vogliamo facilitare il lutto altrui.

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